Quale progetto
e quali comunisti?

Con questo articolo ho cercato di rispondere alla parte propositiva della lettera del compagno Moreno Pasqunelli, quella relativa al ‘progetto’ a cui, ovviamente, siamo tutti interessati come l’impegno per la resistenza irachena dimostra. Rimane aperta la discussione sul superamento degli schemi comunisti. Di quali schemi si parla? Della rivoluzione d’ottobre, della rivoluzione cinese, della rivoluzione cubana, della guerra antiamericana del Vietnam, della resistenza antifascista in Europa, delle lotte operaie e popolari organizzate e dirette dai comunisti? Oppure si parla della degenerazione parlamentaristica delle organizzazioni comuniste e il loro tramutarsi in politicismo dentro le istituzioni borghesi? E, insieme a queste due domande, vogliamo porci la questione epocale del ‘900 e dei suoi esiti per capire la dinamica oggettiva degli avvenimenti? Se partiamo da questo, la discussione si fa interessante e per questo ci ritorneremo nel prossimo numero di Aginform.

L’intervento di Moreno Pasquinelli sul numero 50 di AGINFORM merita una risposta articolata per le questioni che pone e che non possono essere liquidate gridando allo scandalo, come da alcune parti mi viene suggerito.

Per entrare in argomento, Pasquinelli richiama alcune nostre posizioni successive all’89 con le quali ponevamo in modo nuovo le questioni insorte dal crollo dell’URSS e sul come affrontare la nuova fase della ‘globalizzazione’ (termine francamente ambiguo) meglio definibile come ripresa su scala mondiale dell’iniziativa militare dell’imperialismo egemone, quello USA. Posizioni che, contrariamente alla fama di ‘ortodossi’ che ci viene attribuita, non erano affatto di riproposizione di schemi politico-teorici datati, ma, al contrario, tentavano di andare al centro dei problemi, quelli della ridefinizione di una nuova strategia per i comunisti.

Pasquinelli ci rimprovera che a quelle premesse non è seguita un’analisi approfondita sul che fare, ma ci si è limitati a spezzoni di verità che non indicavano il senso complessivo di marcia. Da allora sono passati più di dieci anni e, come sostiene Pasquinelli, sarebbe lecito aspettarsi progressi nella proposta politica e nell’analisi teorica.

Se vogliamo però passare dalle astrazioni all’analisi della realtà, o meglio all’analisi concreta della situazione concreta, dovremmo convenire su due cose. La prima riguarda il contesto politico-culturale in cui gli avvenimenti degli anni ’90 si sono calati in Italia. La seconda, i tempi necessari per la comprensione dei dati oggettivi su cui misurare un programma.

Cosa significa calarsi nel clima degli anni ’90? Come tutti sanno, dopo il crollo dell’URSS si è passati allo slogan “il comunismo è morto, viva il comunismo!”. Significando con questo che sulle ceneri del comunismo reale si apriva una fase di ‘rifondazione’ che alzava un polverone che andava diradato per capire il che fare. Su questo tema della rifondazione ci si è attardati per un decennio e la quasi totalità dei compagni e delle compagne non ha resistito alle sirene dei rifondatori. E’ lecito quindi domandarsi, aldilà di alcune valide testimonianze, tra cui annovero Aginform, se si potesse andare avanti in un progetto politico credibile. A me e ad altri compagni non è sembrato possibile e da qui il nostro ‘ritardo’.

Per inciso, debbo aggiungere che, mentre avviavamo la riflessione, un gruppo di sciacalli ne ha approfittato per portarsi via le salmerie, approdando nel ventre molle delle istituzioni e dell’alternativismo.

Ma la questione più importante è quella oggettiva. Su quali dati all’inizio degli anni ’90 poteva essere impostata una strategia dei comunisti?

Se per comunisti si intendono coloro che si basano sulle contraddizione del sistema capitalistico e dell’imperialismo per definire una strategia di trasformazione sociale, non si può non convenire che bisognava capire su quali elementi forti questa strategia poggi, a meno che non si riproponga la solita solfa della ricostruzione del partito della classe operaia che lotta per la pace e il socialismo facendo astrazione dalle contraddizione concrete che possano alimentare questa strategia.

Per sgombrare il campo quindi da ogni equivoco, dico esplicitamente che chi avesse riproposto in questo modo la questione avrebbe mascherato la sua vocazione riformista e parlamentarista con il pretesto di difendere gli interessi di classe.

Mi sembra che su questo Pasquinelli, almeno per quanto mi riguarda, sfonda una porta aperta, criticando certe impostazioni ‘comuniste’. Se non vogliamo però rotolarci sulle parole, il ‘superamento’ dell’ovvio ha bisogno di concretezze e non mi sembra, però, a questo proposito, che siano emerse alternative che vadano aldilà delle buone intenzioni, di cui, come sappiamo, è lastricato l’inferno. Tutto ciò per un motivo molto semplice, cioè che la maturazione degli avvenimenti non portava ancora a trovare concretamente la risposta alle esigenza di riorganizzazione che si potessero connettere a posizioni comuniste.

Questo noi l’abbiamo detto e teorizzato fin dal 1992, precisando che con ciò non volevamo escludere affatto la resistenza su questioni concrete, ma appunto di resistenza si trattava e non di riorganizzazione strategica.

Che cosa è cambiato da allora? L’articolo a cui fa riferimento Pasquinelli, “dalla resistenza al progetto”, pubblicato nel numero precedente di AGINFORM, pone ai compagni una serie di questioni che li obbliga a riflettere sul fatto che oggi stanno maturando condizioni che impongono una risposta sul terreno non della pura testimonianza o della semplice resistenza. Condizioni cioè che devono spingere i comunisti a scelte coraggiose e ad assunzioni di responsabilità, rompendo il clima da ‘resistenti’ che contraddistingue molti compagni. In sostanza la mia esortazione era un discorso rivolto a noi stessi .

A partire dalla questione irachena che ha costituito e sta costituendo non solo un discrimine fondamentale tra i fautori della ‘rivoluzione perbene’ e i comunisti, ma è anche il punto di svolta per la riapertura di una discussione strategica su come modificare qualitativamente i rapporti di forza a livello internazionale e in Europa, Italia compresa.

Mi sembra che la cosa orribile che è avvenuta a partire dall’inizio della resistenza irachena all’invasione americana è stata quella di negarne l’importanza, non solo con la definizione bertinottiana della perversa spirale guerra-terrorismo, ma non capendo le implicazioni che la resistenza irachena comporta. Sia rispetto al futuro della guerra infinita di Bush, sia, soprattutto, rispetto alle possibilità che apre la sconfitta dell’imperialismo americano.

Mi sembra che, se è difficile far capire a certo pacifismo a ‘tesi’ predefinite il rapporto tra guerra e pace in relazione all’esito iracheno, molto più difficile è aprire una discussione tra ‘rivoluzionari’ sul come agire concretamente nello scenario aperto dalla resistenza.

In questo senso vanno valutate le sollecitazioni del compagno Pasquinelli, al quale mi sento di rispondere, come apertura di discussione, che la guerra in Iraq e lo sviluppo della resistenza vanno colti come occasioni per approfondire la crisi americana e quindi aprire prospettive di modificazione dei rapporti di forza su cui far passare un progetto di trasformazione. Se la parola globalizzazione ha un senso è proprio rispetto alla comprensione che il potente apparato economico militare dell’imperialismo USA, col suo seguito di guerre, genocidi, alleanze reazionarie è il blocco cui ci troviamo di fronte. Senza la sua sconfitta è illusorio parlare di trasformazioni sociali in qualsiasi angolo della terra.

Nel contesto della guerra americana, l’Europa rappresenta un anello della catena imperialista che deve essere spezzato, perché questo non solo accelera la sconfitta americana ma sottrae i popoli europei dal condizionamento economico e sociale imperiale. In questo senso i referendum francese e olandese sono stati un segnale importante perché, mettendo in crisi una costruzione europea legata a strategie imperialiste, ha aperto un nuovo fronte.

Dunque, a mio avviso, la questione che dobbiamo porre, come centro della riorganizzazione dei comunisti, sono questi due punti. Dalla babele degli opportunismi ‘alternativi’ e della logica delle madrasse ideologiche, coloro che si pongono la questione del che fare debbono capire che i punti di partenza non possono essere altri.

Per essere più chiari e sintetici, ragionando per riferimenti storici, dobbiamo immaginarci che contro gli USA, il nuovo Reich, va realizzata una nuova alleanza antifascista su scala mondiale. E come allora, a guerra conclusa e con la vittoria del fronte antifascista, si è aperta una nuova fase della storia mondiale (decolonizzazione, nuove rivoluzioni socialiste, nuovi stati socialisti, ecc.), così la sconfitta deli Stati Uniti aprirà una nuova fase di avanzata delle forze progressiste e rivoluzionarie. In questo contesto, come si è detto, l’Europa americana deve essere sconfitta parimenti. E nel mio articolo ponevo esplicitamente il problema dell’alternativa Prodi, che non garantisce nesuna autonomia dagli americani.: da D’Alema a Rutelli ala Bonino, siamo dentro al partito americano fino al collo. Quindi, quando si parla di Europa atlantica, bisogna includere il governo italiano che nascerà dalle ceneri del berlusconismo e la lotta a questo governo.

Ma come si arriva alla possibilità di gestione politica di questi obiettivi e con quali forme di organizzazione? Questa è la domanda che ci pone Pasquinelli, ma è anche il vero nodo politico della riorganizzazione dei comunisti.

Per capire questo, dobbiamo partire da un paradosso rappresentato dal fatto che per uscire dal riformismo e dalla subalternità bisogna diventare noi stessi, in qualche modo ‘riformisti’, cioè definire i nuovi parametri di un’avanzata rivoluzionaria.

Qual’è il senso di questa affermazione? Contrariamente alla prassi che contraddistingue i rivoluzionari di casa nostra, noi dobbiamo ipotizzare uno scenario in cui i comunisti in occidente, invece di adattarsi alla resistenza sulle singole questioni, spacciandola per prospettiva strategica, strappino l’egemonia dello scontro ai partiti istituzionali chiarendo che la sconfitta americana e la rottura del cordone ombelicale con gli USA sono la condizione per modificare lo stato di cose presente e superare una crisi sociale, morale ed economica che si è fatta irreversibile.

Non è possibile pensare che questa operazione possa essere fatta con vecchi schemi. La crisi di cui parliamo coinvolge ampi settori sociali e i comunisti devono saper trovare la chiave che porta al loro coinvolgimento, esercitando un’egemonia e dando il senso di marcia. E’ questo il’ meticciato’ di cui parla Pasquinelli?

Non è possibile prevedere se questa strategia può trovare la forza per imporsi, ma è l’unica che può avere un senso. Illudersi che quelle che io chiamo forme di resistenza possano cambiare qualcosa è cadere nel riformismo che vive nel ventre molle dell’occidente e quindi ne accetta sostanzialmente le condizioni.

Oggi il punto scatenante di una nuova ondata di rivoluzioni e di trasformazioni epocali non può che nascere dalle ceneri dell’imperialismo USA. Non è l’anello debole a dover saltare, ma quello più forte.

Cosa produrrà la sconfitta americana? Non certamente un processo come quello apertosi con la rivoluzione russa, bensì una riproposizione del livello nazionale dei conflitti e dei progetti di trasformazione sociale in un quadro internazionale segnato dalla vittoria sull’imperialismo egemone, vittoria che potrà permettere l’apertura di nuove relazioni tra i popoli. Non si illudano però i teorici della rivoluzione permanente e i fautori delle madrasse ‘rivoluzionarie’ internazionali: la vittoria sull’imperialismo americano aprirà una nuova, complessa fase del cammino dell’umanità, i cui contorni non possono essere previsti ora.

Stavolta non si tratta di prendere d’assalto il Palazzo d’inverno, ma di mettere assieme, con una coscienza politica adeguata, tutti coloro che l’imperialismo sta schiacciando.

A partire da chi ne subisce le devastazioni in termini di sfruttamento e di aggressione, ma allargando il discorso a tutti quelli che non accettano un futuro di guerra, di regressione sociale, ambientale e di civiltà. Sono la maggioranza, ma per riprendere il cammino bisogna uscire dai riti di una sinistra mediocre e subalterna e saper individuare tutti i passaggi tattici che servono per sollevare il macigno che ci blocca. Si dovrebbe dire “osare combattere, osare vincere”, ma in tempi brevi vedo solo una fase di preparazione organizzata, più che di modelli organizzativi definiti per cominciare l’attacco.

Roberto Gabriele


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