Gli 'amici' dei palestinesi

Tra i riti di una certa sinistra c’è quello di utilizzare la situazione palestinese per organizzare una delle solite sfilate del sabato sera.

Nel caso però del 18 febbraio si è superato il limite della ritualità e ci si è trovati di fronte ad una serie di contraddizioni che hanno reso l’iniziativa non solo grottesca, ma anche oggettivamente utile ai nemici dei palestinesi.

Prima di entrare nel merito delle questioni è bene domandarsi come mai gli ‘amici’ dei palestinesi non hanno mai reagito contro le provocazioni sioniste organizzate dal Foglio di Ferrara. Non parlo ovviamente di qualche dichiarazione, ma del fatto che stavolta si poteva scendere in piazza contro il sionismo. Ma questo non è avvenuto.

Come mai gli ‘amici’ dei palestinesi non si sono accorti che i colonialisti israeliani, gli assassini cioè del popolo palestinese, scendevano in piazza per rivendicare il loro diritto al genocidio di un popolo? Come si può fuggire dalla responsabilità di contrastare il colonialismo sionista nel momento in cui ci si dichiara ‘a fianco’ dei palestinesi?

In altri termini perchè si è rimasti muti di fronte a questi eventi? La spiegazione sta proprio nei contenuti della manifestazione del 18 febbraio, organizzata per chiedere che palestinesi e israeliani vivano gli uni accanto agli altri, in confini certi e garantiti e possano così avviare un 'processo virtuoso' in tutto il Medio Oriente. Questa posizione, ripresa pari pari da Eugenio Scalfari su Repubblica nei giorni seguenti, è stata sottoscritta da tutta la sinistra radicale, PRC, Ernesto, PdCI, Forum Palestina, ecc .

L’aspetto grottesco di questa piattaforma, e quindi della manifestazione, sta nel fatto che essa veniva lanciata quando Hamas aveva strepitosamente vinto le elezioni proprio contro questa piattaforma. Allora c’è da domandarsi, come abbiamo fatto noi da tempo su Aginform on-line,: "solo imbecilli"? Oppure, come è da pensare, i promotori della manifestazione più che ‘amici’ dei palestinesi lavorano per altre cause?

La vittoria di Hamas in Palestina ha squarciato il velo della ipocrisia  che da anni copre il discorso occidentale degli ‘amici’ dei palestinesi, mettendo finalmente in luce una versione della situazione che ci riporta ai temini reali. E vediamoli finalmente questi termini.

Primo, non esiste un processo di pace che deve essere concluso semplicemente perchè quello che è stato finora definito processo di pace non è altro che un progetto di liquidazione della identità palestinese. Già prima di Sharon questo progetto veniva portato avanti dai vari governi israeliani che lo avevano preceduto. Quindi quando si parla di soluzione della questione palestinese bisogna capire che non ci troviamo di fronte ad un conflitto tra due popoli che deve essere regolato pacificamente, ma ad una colonizzazione che deve essere definita nei suoi contorni ‘legali’. Trattandosi di una colonizzazione, come è possibile accettarne le conseguenze? Come è possibile cioè che i coloni israeliani possono avere il diritto di impiantare il loro stato razzista e teocratico su più dell’80% della Palestina storica?

Ciò che non è riuscito col Sud Africa può riuscire a Israele? La fragilità di questa ipotesi, seppure coperta dal consenso della destra come della sinistra, si manifesta  ogni giorno di più. Due esempi. Uno è la vicenda Ferrando, l’esclusione di un candidato dalle liste del PRC perchè aveva, peraltro senza troppa enfasi, manifestato i suoi dubbi sulla teoria dei "due popoli e due stati".

L’attacco incredibile subito da Ferrando e che ha portato alla sua esclusione dalle liste è stata la dimostrazione che rompere il tabù dei due popoli e dei due stati scatena una repressione politica su vasta scala e da qualche tempo a questa parte la repressione non è solo politica, ma anche giudiziaria e questo è appunto il secondo esempio. Il reato di antisemitismo, che si tratti di negazione dell’olocausto oppure di definire fascista un ebreo di destra, come nel caso della condanna del sindaco di Londra, è diventato in occidente  qualcosa che assomiglia alle leggi contro il ‘terrorismo’ islamico. Anzi le due cose viaggiano in parallelo. A che cosa è finalizzata questa repressione?

L’intervista che riportiamo in questo numero di Aginform, il cui autore è un ebreo antisionista, se mette in evidenza le cose che andiamo dicendo da tempo e cioè che la soluzione dei due popoli e due stati è una legalizzazione della colonizzazione della Palestina, insiste però su  un altro e più importante concetto.

Jeffrey Blankfort, l’autore dell’intervista, si pone la domanda "chi dirige chi" nei rapporti tra USA e Israele? E qui viene fuori la questione essenziale sulla natura e il ruolo dello stato sionista di Israele. La favola dei due popoli e due stati mal si concilia col discorso di uno stato che non è altro che uno stato coloniale che agisce come punta avanzata di un disegno imperialista nel Medio Oreinte col suo corollario di centinaia di bombe atomiche pronte per l’uso.

Una tale visione delle cose cambia, dunque, radicalmente il senso della nostra lotta a fianco dei palestinesi. Quello che viene indicato come obiettivo delle nostre mobilitazioni rappresenta in verità la sconfitta del popolo palestinese e la vittoria dell’imperialismo in Medioriente. I sionisti vogliono ridurre i palestinesi ad un enclave. Gli ‘amici’ dei palestinesi vogliono dare a questa enclave la dignità di uno stato indipendente. In ogni caso rimarrebbe in piedi uno stato coloniale con una potenza militare parallela a quella americana che non risolverebbe la questione palestinese ma è un fucile puntato su tutto il mondo arabo. Questo vogliono gli ‘amici’ dei palestinesi?

R. G.


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