Perché non firmo la petizione su Gaza

Caro M., nel riprendere le questioni discusse direttamente, intendo precisare ulteriormente il mio punto di vista.

In primo luogo il rifiuto di firmare la petizione su Gaza [vedi il testo qui] non è una contrapposizione all'iniziativa, nè un giudizio di merito sui contenuti. Ciò che ritengo criticabile è che si ricominci dalle petizioni o da qualche conferenza per affrontare i compiti che ci stanno di fronte. Il fatto che si ricorra a conferenze e a firme in calce a petizioni puzza di già visto. In genere iniziative di questo genere servono a salvare l'anima di qualche intellettuale non organico o a coloro che intendono la militanza in questo modo. Nel caso peggiore sono frutto di piccole smanie di protagonismo politico da parte dei promotori che poco hanno a che fare con l'obiettivo.

Queste iniziative peraltro non smuovono alcunchè come è dimostrato dal corso degli avvenimenti. La cattiva cultura gruppettara e post-sessantottina e, aggiungerei, di stile tardopiccista, non è stata ancora sradicata e l'esperienza non ci ha ancora insegnato che le posizioni di principio, non suffragate da una strategia politica lasciano il tempo che trovano. Chi si accorgerà di questa petizione? Nessuno. Forse ecciterà gli animi di gruppi di compagni antimperialisti che vogliono esprimere una posizione giusta, ma in questo modo non si cava un ragno dal buco.

Ma allora, si dirà, meglio questo che niente. Ebbene, caro M., con questo ragionamento si va avanti non da anni, ma da decenni, senza porsi seriamente il che fare e ripetendo riti che al fondo dimostrano non solo pigrizia politica, ma un opportunismo di fondo che, a ben vedere, viene direttamente da una esperienza politichese.

Se queste considerazioni hanno un senso, e per evitare di parlare solo in negativo, cercherò ora di formulare una bozza di ragionamento che non ha la pretesa di essere la risposta a tutto, ma almeno ha il merito di aprire un discorso meno rituale.

Partirò da una frase di Lenin ripresa dalle famose 'lettere da lontano' in cui si dice che la rivoluzione di febbraio del 1917 non solo era l'inizio di una rivoluzione, ma che essa era il frutto della guerra imperialista e che, inoltre, la rivoluzione russa non sarebbe stata che una parte di un processo rivoluzionario a carattere mondiale. Di qui discendeva la definizione dei compiti che spettavano ai comunisti russi.

Perché cito Lenin? Semplicemente perché ritengo che la congiuntura che stiamo attraversando richiama, con le dovute differenze, una situazione analoga, in quanto siamo alla vigilia di avvenimenti sempre più drammatici a cui bisogna rispondere con la dovuta consapevolezza. Nei fatti però siamo stretti da una tenaglia tra la posizione della sinistra imperialista che mistifica i termini del conflitto e impedisce così di sviluppare una coscienza adeguata e la ritualità di un movimento che si definisce antimperialista e che non riesce a costruire un percorso.

Citando ancora Lenin voglio ricordare che egli affermava che la lotta all'imperialismo deve essere accompagnata dalla lotta all'opportunismo. Dicendo questo credo di scoprire l'acqua calda, ma questo, per onestà, mi porta a dire le cose come stanno e per questo non mi stancherò mai di denunciare logiche gruppettare, e non per spirito di polemica, bensì perché penso che se non facciamo i conti con questo retaggio passi avanti non ne faremo.

Non che manchino spezzoni di verità nelle posizioni antimperialiste che si esprimono oggi in Italia. Alcune battaglie vere come quelle a favore della resistenza irachena, di Hamas, contro il nazisionismo, la denuncia dell'autoattentato dell'11 settembre ecc. sono elementi validi, ma non costituiscono ancora una strategia. Mentre noi dobbiamo lavorare per definire seriamente questa strategia.

Direi che il passaggio che può segnare la via d'uscita è rappresentato dal fatto che si costituisca un fronte antimperialista, cioè un movimento politico che si colleghi alle vicende internazionali e apra in Italia uno scontro politico su varie questioni.

La prima ovviamente riguarda i governi italiani che sono in guerra a fianco degli americani e ciò riguarda sia la destra che la sinistra governista. Non può esistere che ci si ritrovi a fianco nelle iniziative contro la guerra con coloro che collaborano coi governi che questa guerra alimentano. Bisogna saper scavare un fossato tra noi e costoro, non solo con comunicati roboanti, ma con una capacità politica di trasformare il rifiuto della guerra in coscienza antimperialista. Un compito ovviamente molto difficile, ma che presuppone in coloro che mettono la lotta antimperialista al primo posto una maturità d'intenti che per ora non si intravede all'orizzonte. Come la lotta all'imperialismo non si può condurre se non si combatte l'opportunismo, una vera lotta antimperialista non può avanzare se non si raggiunge il punto di maturità necessaria. E questo punto, ti ripeto, non si raggiunge con le petizioni o i convegni, ovvero gli strumenti devono essere usati partendo da una forza strategica che sia capace di finalizzarli e di usarli anche tatticamente. E' nato prima l'uovo o la gallina? Mi sembra che finora abbiamo pestato l'acqua nel mortaio. Almeno proviamo a discutere sul perché prima di continuare a prenderci in giro.

Seconda questione. La costruzione di un movimento antimperialista parte dalla coscienza che la sconfitta del nemico non è un pranzo di gala, né una improvvisazione estremista. Il livello dell'organizzazione non può essere affidato alla scapigliatura post-sessantottina o a intellettuali, veri o presunti, di tendenza radicale. Abbiamo bisogno di una organizzazione militante che escluda i modelli di quelli del sabato sera. Il modello leninista rimane più che mai valido. Quando parlo di modello leninista non mi riferisco alle caricature emmelliste, bensì al contenuto 'professionale' della militanza.

Un'ultima questione riguarda la sinistra imperialista e i nostri compiti. Se il nostro impegno primario è combattere l'imperialismo americano e i suoi alleati, tra cui l'Italia, rimane aperta la questione del pacifismo opportunista. Esso parla di pace, ma esclude coloro che si organizzano contro le guerre e pertanto esso è un alleato obiettivo dell'imperialismo. Resistenza irachena e afgana, Somalia, Darfur, Iran, Hamas, Hezbollah, cioè l'intero fronte combattente viene rimosso e demonizzato. Come esiste anche un rifiuto da parte della sinistra pacifista di considerare il nazisionismo e l'esistenza dello stato coloniale e razzista d'Israele come uno degli artefici principali delle guerre.

La nascita del fronte antimperialista dunque, alla luce di queste considerazioni, deve saper definire bene i suoi nemici e prepararsi a combatterli imponendo un'egemonia politica basata non su vecchie diatribe ideologiche, ma sull'analisi dei fatti e sulla capacità di spiegarli e affrontarli. La riuscita di un progetto politico non sta nelle differenziazioni gruppettare ed estremistiche, ma nella natura rivoluzionaria e oggettiva degli obiettivi.

A quando?

Roberto Gabriele


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