Bilancio critico della rivoluzione proletaria

di Franco Guerrieri

Che la lotta contro il revisionismo moderno sia un’esigenza pregiudiziale per i comunisti è significativamente evidenziato nel passaggio, che riproduciamo qui appresso, da un documento del comitato centrale del partito comunista delle Filippine, sottoposto al seminario "sull’unità del movimento comunista intemazionale", svoltosi a Bruxelles nel Maggio 1995.

"In realtà i comunisti debbono essere in grado di rispondere a questa domanda: che cosa accadrebbe se in qualche paese l’imperialismo e i reazionari fossero rovesciati e si cercasse di costruire il socialismo? Non potrebbe riprodursi ancora una volta il capitalismo come è già successo?

Se i comunisti non sapranno rispondere a questa domanda non saranno in grado di distinguersi dai moderni revisionisti, che hanno distrutto il socialismo mascherandosi da comunisti. Da questo punto di vista ci rendiamo conto quanto sia importante l’apporto teorico e politico di Mao, sostenendo, difendendo e sviluppando il marxismo-leninismo e cercando di combattere il revisionismo moderno, di impedire la restaurazione e di consolidare il socialismo".

Da questa citazione, sul cui contenuto sostanziale concordiamo pienamente, si evince che il discrimine, lo spartiacque tra i marxisti-leninisti e il revisionismo non può ridursi ad una mera attestazione di fedeltà ai principi del marxismo-leninismo, ossia ad un mero atto formale e dichiaratorio. Occorre invece stabilire ciò che deve stare dietro al richiamo nominalistico a tali principi, richiamo del quale i revisionisti possono sempre servirsi come maschera per dissimulare e travestire i loro veri intenti.

L’autenticità, la coerenza dei comunisti non può quindi misurarsi che sulla base della loro capacità e volontà di riflettere, oltre che sui grandiosi risultati positivi, sugli errori, anche gravi, che hanno contrassegnato l’esperienza storica del movimento comunista internazionale e che sono all’origine della catastrofica sconfitta da esso subita con il crollo dell’URSS e degli altri Stati già socialisti dell’est europeo.

Ciò allo scopo di trarne benefici insegnamenti, compiendo ogni sforzo - attraverso una approfondita e lungimirante autocritica - per evitare che tali errori possano ripetersi nell’avvenire.

Sappiamo peraltro bene che non esistono ricette infallibili atte a garantire che le future società postrivoluzionarie ed il movimento comunista internazionale non abbiano a registrare nuovamente processi degenerativi e dolorose sconfitte, prima che il capitalismo possa essere definitivamente abbattuto ed il successo definitivo del comunismo - la più grande trasformazione sociale nella storia dell’umanità - assicurato. Dalla dottrina marxista abbiamo infatti appreso che il processo storico è un processo reale, rispondente a leggi oggettive, e non può quindi essere indirizzato in base a modelli ideali: La conoscenza di tali leggi oggettive ci induce a ritenere che la società attuale evolve necessariamente verso il comunismo. Ma non si tratta di un processo automatico e/o predeterminato, giacché, dentro tale processo reale, l’elemento soggettivo, la volontà cosciente delle forze soggettive rivoluzionarie, vi svolge un ruolo risolutivo.

Da qui l’esigenza fondamentale che i comunisti ridefiniscano la loro linea d’azione, il loro programma e la loro strategia, tenendo conto dei dati concreti acquisiti dalla loro esperienza storica, al centro della quale va necessariamente allocata l’esperienza della prima dittatura proletaria affermatasi a seguito della rivoluzione di Ottobre.

Vogliamo al riguardo prendere spunto dalle parole del compagno Fosco Dinucci (contenute in un suo scritto pubblicato nel 1989 su "Nuova Unità"), le quali ne sintetizzano con grande chiarezza il reale significato:

"Sotto la guida del partito comunista bolscevico, con alla testa Lenin e poi Stalin (...), l’Unione Sovietica divenne una base sicura e potente del movimento rivoluzionario mondiale (...) E’ questo il periodo (anni ’30: n.d.r..) in cui il paese dei Soviet è impegnato nella collettivizzazione dell’agricoltura e nella più rapida industrializzazione (...). Naturalmente vi erano pure lacune, difetti ed errori in questa immane impresa di costruzione di una nuova società, senza precedenti nella storia e quindi senza esperienze da cui trarre insegnamento. Il P.C.d.I, nel giudizio molto positivo sull’edificazione socialista in quel periodo, ha indicato tra gli errori più gravi, l’aver concentrato il potere in pochi dirigenti, mentre la dittatura del proletariato, che deve essere inesorabile contro i nemici di classe, deve nel contempo promuovere la più ampia democrazia socialista per le masse. Da ciò sono derivati atti come quello di considerare traditori al servizio del nemico e trattare come tali dei semplici dissidenti. Ciò ha favorito lo sviluppo di una certa burocrazia che, Stalin vivente, non ha osato contrapporsi alla politica leninista del P.C.U.S., come ha fatto invece dopo la sua morte".

Concordiamo sostanzialmente con questa valutazione del compagno Dinucci, la quale implica il giusto riconoscimento dei grandi meriti storici di Stalin, così come dei suoi errori, i quali tuttavia - come ebbe a sottolineare Mao - stanno in secondo piano rispetto ai suoi successi e non possono sminuire il suo valore di eminente marxista-leninista.

Ma una più attenta ed approfondita riflessione su quella esperienza storica e sull’opera di Stalin ci induce a ritenere che per poterne trarre un bilancio serio ed utile, in vista dei grandi e complessi compiti spettanti ai comunisti nel nuovo secolo, occorra introdurre una distinzione fondamentale tra gli errori soggettivi (evitabili) di Stalin (e del gruppo dirigente del partito comunista bolscevico da lui guidato) e gli "errori storici" che li coinvolgono. Per quanto riguarda questi ultimi, trattasi, in sostanza, di errori INEVITABILI, in quanto generati da condizioni storiche specifiche, contestuali ad un’epoca (l’epoca dell’imperialismo, del capitalismo decadente) nella quale la rivoluzione proletaria riuscì a spezzare l’anello più debole della catena impcrialistica, ma non potè prevalere nei punti alti dello sviluppo capitalistico, oggettivamente maturi per la trasformazione socialista.

A seguito del riflusso della rivoluzione mondiale negli anni ’20 e del conseguente pressante accerchiamento imperialistico dell’URSS, i bolscevichi furono in effetti obbligati ad assumersi il duplice ed arduo, quanto immane, compito di portare a termine la costruzione del socialismo e - avendo questa avuto inizio in un paese arretrato - di incrementare, in massimo grado ed a tappe necessariamente forzate, le forze produttive, onde creare le condizioni materiali necessarie per il consolidamento e lo sviluppo dei rapporti di produzione fondamentalmente socialisti stabiliti dopo la rivoluzione di Ottobre (il cui avvento non era stato peraltro reso possibile dal fatto che l’economia russa fosse matura per la trasformazione socialista, bensì dal fatto che, nelle condizioni di declino del capitalismo, non poteva più progredire su basi capitalistiche).

Non si trattava comunque di un compito irrealistico, considerando le immense risorse naturali di quel paese e l’appoggio di cui l’URSS poteva disporre da parte del movimento proletario internazionale. Del resto, non v’era, per il partito comunista bolscevico, alcun’altra plausibile alternativa strategica alla scelta di Stalin del "socialismo in un solo paese" (peraltro già anticipata da Lenin, sebbene in termini concettuali senza dubbio NON COINCIDENTI con quelli della specifica versione staliniana di tale linea).

Le soluzione proposte dalla opposizione di "sinistra" ("rivoluzione mondiale", assurdamente giustapposta alla edificazione socialista dell’URSS e contraddittoriamente combinata con l'"integrazionismo", ossia con la tesi della integrazione dell’economia socialista nel mercato capitalistico mondiale) e di destra ("socialismo a passo di lumaca") avrebbero, in effetti, implicato la sostanziale conseguenza logica di impedire che l’URSS potesse diventare una EFFETTIVA E SOLIDA BASE DI APPOGGIO del movimento rivoluzionario internazionale e, in definitiva, di anticipare verosimilmente di mezzo secolo il suo crollo.

Per queste ragioni di fondo, sia la mancata promozione della "più ampia democrazia socialista per le masse", sia "lo sviluppo di una certa burocrazia" non possono in ultima analisi considerarsi errori soggettivi, imputabili a Stalin od alla direzione del partito bolscevico da lui guidata ma possono, a buon diritto, essere compresi nella categoria degli "errori storici", ovvero inevitabili.

In entrambi i casi, ha giuocato, come fattore determinante, l’effettivo livello di coscienza politica raggiunto dalle masse sovietiche in correlazione con il reale livello di sviluppo socio-economico raggiunto dall’URSS, nel periodo preso in esame.

Tale livello di coscienza politica risultava ancora distante da quello dell’avanguardia proletaria. La società sovietica, in quegli stessi anni - gli anni della industrializzazione accelerata e della collettivizzazione dell’agricoltura -, nonostante i grandi progressi conseguiti sotto la guida di Stalin, era di fatto ancora gravata dal fardello della sua pregressa arretratezza e non aveva pertanto potuto definitivamente colmare il relativo vuoto politico venutosi a creare nel Partito e nello Stato sovietico a seguito della pesante falcidia subita dalla classe operaia nel corso della guerra civile. Da qui l’impossibilità pratica della piena attuazione - almeno fino agli anni ’50 - dell’effettivo autogoverno delle masse.

Da qui l’impossibilità della piena partecipazione delle masse all’esercizio del potere politico proletario e quindi il peso crescente della burocrazia nell’apparato dello Stato e del Partito.

Del resto Stalin, pur contrastando risolutamente e duramente la burocrazia e il burocratismo (ancorché con metodi inadeguati e , in una certa misura, controproducenti, in quanto prevalentemente amministrativi) riteneva, certo non a torto, che il burocratismo stesso rappresentasse, in fondo un male minore (purché l’apparato di Partito e il Partito stesso non avessero perso contatto con le masse), rispetto alle tendenze regressive e piccolo-borghesi, derivanti soprattutto dai piccoli produttori di merci, ancora largamente presenti nella società, le quali non potevano non riflettersi sul Partito e sullo Stato sovietico. Egli era in effetti dell’avviso che tali tendenze avrebbero potuto guadagnare terreno nel Partito servendosi pretestuosamente della "libertà di discussione" e della "democrazia interna" (coincidente, in pratica, con la legittimizzazione delle frazioni, già proscritte da Lenin), invocate da Trotski e, in seguito, dalle opposizioni di "sinistra" e di destra. Secondo Stalin (cfir. XIII Congresso del P.C.(b) - Maggio 1924), si sarebbe perciò dovuto porre fine al frazionismo - giustificato e praticato dai totskisti -, divenuto effettivamente, in quanto veicolo di dette tendenze, un pericolo grave per l’unità del partito e quindi per la stessa compattezza del potere sovietico).

Va inoltre tenuto presente che le misure draconiane adottate da Stalin contro le opposizioni dentro e fuori dal Partito - alla fine degli anni ’20 e negli anni ’30 - comspondevano ad uno stato di necessità reale. Anzitutto queste contrastavano ed ostacolavano di fatto (coadiuvando oggettivamente le forze ostili al socialismo e pertanto anche i responsabili diretti degli effettivi atti di sabotaggio perpetrati, in quegli anni, nelle industrie e nelle campagne) l’indispensabile processo di industrializzazione accelerata e di collettivizzazione integrale dell’agricoltura, portato avanti in una situazione di accerchiamento capitalistico e di minaccia di aggressione militare dell’URSS da parte dell’imperialismo, minaccia divenuta incombente dopo l’avvento di Hitler al potere. Inoltre una parte degli stessi oppositori - i trotzkisti - preconizzava esplicitamente il rovesciamento rivoluzionario del potere sovietico (in coincidenza con l’assassinio di Kirov), in un periodo in cui l’URSS si trovava, come si è testé ricordato, nelle condizioni di una fortezza assediata...

Non possono tuttavia ritenersi giustificati gli ECCESSI in cui la direzione del partito comunista bolscevico, con alla testa Stalin, incorse nell’applicazione pratica di tali pur necessarie misure, laddove validi quadri dirigenti e militanti del Partito - tuttalpiù in disaccordo con la linea della sua maggioranza, ma sostanzialmente rispettosi delle sue norme statuarie e della legalità sovietica - furono indiscriminatamente espulsi dal Partito comunista bolscevico e/o ingiustamente incriminati e giustiziati come "nemici del popolo" e "agenti" dell’imperialismo. Tali ECCESSI - che si traducevano in gravi violazioni del centralismo democratico e della legalità socialista - vanno riguardati come seri errori (soggettivi e quindi evitabili) ed effettive colpe, di cui Stalin fu, senza dubbio, principalmente responsabile.

La gravita di tali errori derivava soprattutto dal fatto che, nel commetterli, veniva del tutto trascurata la necessità, per il Partito, di utilizzare al meglio, per quanto oggettivamente possibile, tutte le sue forze umane, anche se temporaneamente in dissenso con la sua linea maggioritaria (purché non ne fosse legalmente ed effettivamente PROVATA la responsabilità per atti compiuti in violazione delle norme del centralismo democratico e/o della legalità socialista), tenendo conto che esse rappresentavano comunque una risorsa per il Partito, suscettibile di essere da esso proficuamente utilizzata, almeno nel futuro.

La concentrazione del potere in "poche mani" (opportunamente menzionata da Dinucci) ne fu una logica conseguenza e può, in una certa misura, ritenersi alla radice di taluni errori (soggettivi) di Stalin (compresi quelli relativi ad alcuni suoi interventi in questioni interne di "certi paesi" e "partiti fratelli", come giustamente rilevato da Mao, con particolare riferimento alla Cina e alla Jugoslavia). Tali errori avrebbero presumibilmente potuto essere evitati se alle decisioni prese da Stalin fosse stato compartecipe un ambito più vasto di dirigenti del Partito e delle stesse istituzioni statali sovietiche.

D’altra parte, va sottolineato e ribadito che gli errori commessi da Stalin, di cui si è finora trattato, sono riconducibili, in definitiva, al suo fondamentale errore (teorico e politico) di non aver saputo distinguere tra le contraddizioni "in seno al popolo" e le contraddizioni "tra il nemico e noi" (per dirla con Mao), avendo identificato il nemico unicamente con il "nemico esterno" ed avendo pertanto considerato come suoi "agenti", ossia come agenti dell’imperialismo, tutte le forze in contrasto con la linea del Partito, sia che si trattasse di forze effettivamente ostili al potere sovietico ed alla classe operaia, sia se si trattasse di comunisti e di proletari, ancorché, eventualmente, su posizioni errate. In tal modo, la FONTE di entrambe dette categorie di contraddizioni, fu ravvisata da Stalin al di fuori della società sovietica, dal momento che egli riteneva che "la possibilità di restaurazione"del capitalismo derivasse unicamente dall’attacco armato dell’imperialismo (cfr.Mao, "pseudocomunismo di Kruscev e gli insegnamenti che dà al mondo").

E’ tuttavia doveroso e necessario aggiungere che, nell’ultimo periodo della sua vita, Stalin seppe correggere sostanzialmente, ancorché in parte, tale errore, in una serie di scritti, i quali possono considerarsi come il suo testamento politico (cfr. Stalin, "Problemi economici del socialismo dell’URSS" - Nov. 1951 - Sett. 1952).

In quest’opera, egli riconobbe che nell’Unione sovietica esistevano "senz’altro" contraddizioni tra le forze produttive ed i rapporti di produzione, le quali - qualora non fossero state convenientemente governate e superate - avrebbero potuto divenire antagonistiche, esponendo l’URSS al rischio della restaurazione del capitalismo.

In realtà, a tali contraddizioni strutturali corrispondevano, sul piano della sovrastruttura (ciò che Stalin omette di precisare, ma che risulta implicito nel testo dell’opera sopracitata), le contraddizioni esistenti tra la classe operaia ed i lavoratori sovietici, da un lato, e un ristretto strato di soggetti sociali (individuabili negli "specialisti" di alto livello per lo più appartenenti alle sfere dirigenti dell’apparato produttivo e statale sovietico), il quale beneficiava di una quota della ricchezza nazionale necessariamente (entro certi limiti) superiore a quella percepita dalla restante popolazione lavoratrice. Gli strati più elevati della burocrazia si identificavano in pratica od erano in stretta contiguità con detta fascia sociale minoritaria, mentre la burocrazia nel suo insieme subiva inevitabilmente l’influsso dei suoi elementi regressivi.

Le radici di tale strato minoritario della popolazione sovietica risiedevano nella presenza del diritto borghese nell’ambito della distribuzione e, potenzialmente - in quanto esso era suscettibile di divenire un vero e proprio ceto privilegiato -, nella presenza di elementi economici storicamente pregressi e residuali nei rapporti di produzione vigenti, fondamentalmente socialisti.

Dentro infatti il contesto di tali rapporti, soprattutto la circolazione e lo scambio dei beni di consumo individuali, ma anche, in parte, la produzione stessa (giacché nell’URSS - come precisato da Stalin nell’opera già citata - "i prodotti di consumo indispensabili per reintegrare l’impiego di forza lavoro nel processo produttivo si producevano e si realizzavano come merci " ed inoltre "nel campo del commercio estero - ma solo in questo campo - " i mezzi di produzione erano "effettivamente delle merci" ed "effettivamente venduti"), risultavano (necessariamente) soggetti alla legge del valore (cioè a dire ad una legge, la quale, benché preesistente al capitalismo - in quanto legge generale della produzione di merci, già operante prima della forma di produzione mercantile più avanzata, propria del capitalismo stesso - e benché permanga necessariamente anche dopo il rovesciamento del regime capitalistico, in una fase iniziale di transizione al comunismo, è in effetti pur sempre prodromica alla legge capitalistica del plusvalore).

Le sperequazioni sociali in essere nell’URSS, già prima della scomparsa di Stalin, derivavano dunque dal sussistere del diritto borghese nell’ambito della ripartizione ed erano destinate, alla lunga, ad accentuarsi (come in realtà si verificò) per effetto del permanere delle categorie di mercato negli ambiti sopraconsiderati dei rapporti di produzione (quantunque la sfera d’azione di tali categorie fosse circoscritta, fintantoché esistevano nell’URSS "la proprietà sociale dei mezzi di produzione" e la "legge dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale", che limitavano appunto - come fa rilevare Stalin nella stessa opera in riferimento - "il campo d’azione" delle categorie mercantili e quindi della legge del valore).

Si trattava del resto di un retaggio giuridico ed economico della vecchia società, ancora oggettivamente necessario, data l’esigenza imperiosa di stimolare lo sviluppo delle forze produttive, onde adeguarlo a quello occorrente per la realizzazione integrale del socialismo: La società sovietica dell’"era staliniana" si collocava invero in uno stadio primario di transizione dal capitalismo al comunismo, antecedente alla stessa fase inferiore della società comunista (designata, nella terminologia marxista corrente, come socialista), non essendo stata ancora attuata la socializzazione di TUTTI i mezzi di produzione, compresi quelli dell’agricoltura, oltre a quelli dell’industria, stante l’insufficiente grado di concentrazione produttiva esistente nelle campagne sovietiche (come rilevato da Stalin nell’opera citata - con riferimento alTAntidühring" di Engels -, riconoscendo perciò implicitamente ma inequivocabilmente, l’appartenenza dell’URSS del suo tempo a tale stadio primario di transizione).

Il superamento del sistema di distribuzione soggetto alla legge del valore avrebbe in effetti potuto venir meno soltanto quando si fosse pienamente realizzato il passaggio (già proposto da Stalin in quello che abbiamo definito il suo "testamento politico") dallo scambio mercantile e monetario ad un sistema di ripartizione in cui - attuandosi le condizioni materiali necessarie per la misura diretta (anziché indiretta, mediante il valore, espresso in moneta) della quantità di lavoro impiegata nel processo produttivo - anche il tempo di lavoro contenuto nei beni assegnati ai lavoratori "per il proprio uso" (Marx) verrebbe misurato direttamente, per cui essi non riceverebbero più detti beni sotto forma di "salario" monetizzato, bensì in base alla semplice registrazione del lavoro svolto, nella prospettiva di sostituire al principio "a ciascuno secondo il suo lavoro" (ancora appartenente al "diritto borghese") il principio comunista "ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni".

Il processo degenerativo e restaurazionista, sviluppatesi nell’URSS dopo la scomparsa di Stalin, non solo ha impedito tale evoluzione, sostanzialmente preconizzata da Stalin (cfr.Op.cit.), ma ne ha addirittura ribaltato il senso di marcia.

Allorquando infatti la dirczione del PCUS venne a cadere nelle mani di Kruscev e della sua cricca di revisionisti, non solo non ci si orientò verso la graduale restrizione della circolazione e dello scambio mercantile, come proposto da Stalin, ma si operò in modo da consolidarli ed estenderli, cosicché venne ad ampliarsi la sfera di azione della legge del valore, rafforzandosi, nel contempo, la presenza del diritto borghese nell’ambito della ripartizione. Tale indirizzo è nell’ORIGINE del progressivo declino del socialismo e della conseguente restaurazione capitalistica nell’URSS, contro la quale eventualità Stalin aveva pur voluto richiamare l’attenzione del PCUS, laddove (cfr.op.cit.) aveva espressamente affermato che "la circolazione mercantile è incompatibile con la prospettiva del passaggio al comunismo" e che "l’esistenza della circolazione mercantile (e quindi della legge del valore ad essa legata) deve inevitabilmente portare alla rinascita del capitalismo", beninteso, secondo Stalin, nel caso del suo "estendersi" al di là dei limiti entro cui avrebbe dovuto temporaneamente sussistere (in quanto avrebbe potuto così implicare la restaurazione della proprietà privata dei mezzi di produzione).

Fu questa infatti la definitiva inevitabile conseguenza della progressiva estensione della sfera di intervento del mercato nell’economia dell’URSS, voluta da Kruscev e dai suoi successori. Grazie alla loro politica, si approfondì anzitutto il divario tra il ristretto strato sociale percettore di retribuzioni elevate e la grande massa di lavoratori.

Dal seno di tale strato sociale emersero quindi "nuovi elementi borghesi" (Mao), i cui introiti derivavano principalmente da operazioni di trafugamento dei beni sociali e di illecite appropriazioni di beni dello Stato sovietico, anche strumentali. Accrescendosi progressivamente - attraverso canali legali, ma soprattutto illegali - la quota di ricchezza sociale ottenuta da detto strato minoritario della popolazione sovietica, questa divenne una categoria fortemente privilegiata, in possesso di una cospicua forza economica. In tal modo si accentuò la sua propensione a far rinascere il capitalismo, propensione che si espresse attraverso i moderni revisionisti. Costoro riuscirono pertanto a guadagnare sempre più posizioni di comando nel PCUS, spingendo progressivamente l’URSS sulla via della restaurazione capitalistica: Tale corso involutivo fu, d’altra parte, senza dubbio, facilitato dalla preesistente identificazione dell’apparato dirigente del Partito con l’apparato dirigente dello Stato sovietico - a sua volta strettamente interconnesso con le articolazioni strutturali (ossia economiche) dell’Unione Sovietica, consentendo alle tendenze restaurazioniste, insite in queste ultime e dunque nello stesso apparato dirigente statale, di contagiare direttamente la direzione del PCUS.

Sarebbe altrimenti incomprensibile il fatto che nell’URSS la controrivoluzione non sia riuscita a prevalere attraverso il rovesciamento violento del sistema sociale vigente., attuato da forze ESTERNE al potere, ma abbia invece assunto la forma di una controrivoluzione strisciante "di palazzo", approdata al colpo di Stato quasi indolore di Eltzin. Il processo restaurazionista, più che da parte dei vecchi quadri più vicini a Stalin (Malenkov, Molotov, Kaganovic ecc) ebbe invece ad incontrare maggiore resistenza nell’assetto strutturale dell’URSS (o per meglio dire nella forza d’inerzia di questo), ancora fondato sui nuovi rapporti di proprietà instaurati dalla rivoluzione di Ottobre, poi consolidatisi sotto la guida di Stalin. Possiamo pertanto dedurne che la sopramenzionata identificazione dell’apparato dirigente del Partito con quello dello Stato sovietico abbia senza dubbio facilitato il processo degenerativo prodottosi nell’URSS ed il suo disastroso e tragico epilogo.

Ciò ci induce a ritenere che tale esito nefasto avrebbe potuto essere notevolmente intralciato, se non impedito, qualora fossero state adottate misure concrete volte a separare l’apparato dirigente del Partito dall’apparato dirigente dello Stato (fatta salva naturalmente l’indispensabile fusione delle cariche "supreme" del Partito con le "supreme" cariche statali, secondo le giuste indicazioni di Lenin, onde salvaguardare il necessario ruolo dirigente del Partito comunista nello Stato operaio).

In altre parole, si sarebbe dovuto interdire ai dirigenti delle unità produttive e dell’amministrazione statale l’accesso alle alte cariche del Partito ed ai dirigenti del Partito di poter detenere funzioni di comando nelle unità produttive e negli organi esecutivi dei Soviet ( e quindi di poter percepire retribuzioni necessariamente più elevate data l’alta qualificazione del personale preposto a tali funzioni direttive). Si sarebbe in tal modo potuto sottrarre il Partito all’influenza contagiosa delle tendenze restaurazioniste provenienti dalle alte sfere dell’apparato produttivo ed amministrativo dello Stato sovietico.

E’ nell’assenza di tali misure preventive, è nella trascuranza del problema, per cui esse si sarebbero rese necessarie (dovuta peraltro anche al fatto che non esistevano esperienze precedenti, delle quali tener conto) che è possibile, a nostro avviso, rintracciare, in ultima analisi, un LIMITE ED UN ERRORE DI FONDO il quale ha pesantemente condizionato non solo le vicende specifiche dell’Unione Sovietica, ma anche l’intero corso storico della dittatura del proletariato, fino ai nostri giorni.

Occorre dunque prestare la massima attenzione a tale problema, affinchè il movimento comunista possa evitare di ricadere in futuro nello stesso errore di fondo testé evidenziato, soprattutto nei paesi arretrati o economicamente poco sviluppati, ossia dove risulti ancora necessario, nella fase di transizione dalla società capitalistica alla società comunista - per un periodo più o meno lungo - il mantenimento del diritto borghese nell’ambito della ripartizione e, più in generale, delle categorie di mercato nella distribuzione e, in parte, nella produzione di beni, per cui tali paesi siano di fatto esposti al rischio reale di subire processi degenerativi e restaurazionisti.

D’altra parte, sia il sopra segnalato errore di fondo, sia gli altri errori (soggettivi) di Stalin, non possono comunque indurci, come si è detto, a svalutare la sua opera complessiva, che deve essere invece giudicata positivamente.

Tali errori ci autorizzano tuttavia a ritenere che lo specifico sistema di gestione del Partito e dello Stato sovietico praticato sotto la direzione di Stalin, non possa e non debba assurgere a MODELLO ideale delle future società postrivoluzionarie, nonostante i fondamentali e preziosi ammaestramenti che il movimento comunista intemazionale può e deve, senza dubbio, trarre dalle realizzazioni socialiste poste in essere nell’URSS, nell’era di Stalin.

Ciò stabilito, riteniamo che, nell’affrontare sia le questioni inerenti all’esperienza storica della dittatura proletaria, sia quelle che si porranno ai comunisti nel corso dei futuri processi di trasformazione sociale, vada soprattutto tenuto presente il grande apporto teorico e politico di Mao Tze-Tung, in ordine a tale tematica, apporto a tutt’oggi ineguagliabile, dal quale i comunisti non possono dunque in alcun modo prescindere, essendo anzi necessario ne facciano effettivamente tesoro nel dibattito in corso sulla ricostruzione del partito comunista.

Quest’ultimo dovrà infatti dotarsi, a nostro giudizio, di una linea programmatica e strategica, comprendente non solo i compiti della classe operaia nel breve e nel lungo periodo, debitamente collegati all’obiettivo della conquista del potere politico, ma anche i compiti inerenti alla transizione rivoluzionaria alla società comunista. Ciò tenendo conto della necessità di prevenire, per quanto possibile, come si è detto, il riprodursi di processi degenerativi analoghi a quelli che hanno condotto alla restaurazione del capitalismo nell’URSS e negli altri paesi già socialisti dell’est europeo. Non si tratta del resto, in definitiva, di un’esigenza meramente progettuale o tanto meno escatologica (come potrebbe apparire ai seguaci della realpolitik "rivoluzionaria", purtroppo presenti nella stessa area marxista-leninista), bensì molto concreta ed attuale, in quanto legata alla necessità di riarmare e rimotivare politicamente la classe operaia, favorendo gli sforzi dei suoi settori d’avanguardia per recuperarne la coscienza dei propri interessi e della propria funzione storica di "artefice di una società nuova, finalmente liberata da sfruttamento e oppressione.

Franco Guerrieri
5 Marzo 2000

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