COMUNISMO E INDIVIDUALISMO

Una lettera

Egregi Signori,

Premetto che entro breve verserò le ventimila lire dell’abbonamento, ma tutto sommato non è questa la ragione per cui ho sentito la necessità di scriverVi, ma quella di esprimere il mio disaccordo rispetto certe posizioni "ideologiche" espresse su Aginform (nello specifico, a titolo di esempio farò sempre riferimento al numero 2 dell’aprile 1999).

Tengo a specificare di non essere in grado di gestire dissertazioni sulle varie forme teoriche e pratiche del pensiero materialista, e quindi sposto un po’ i termini del discorso in una zona che ho la sensazione potrebbe farVi sorridere. Personalmente, oltre che comunista desidero fortemente considerarmi anche individualista convinto, ovvero ritengo irrinunciabile la salvaguardia di uno spazio (da intendersi in tutte le sue forme) che riguardi solo ed esclusivamente il singolo individuo, cioè deve essere sempre possibile ed agibile una zona del vivere dove ognuno pensa fa e dice esattamente ci ò che desidera, senza mezzi termini.

Diversamente, noto con fastidio un assoluto passar sopra, da parte vostra, alle necessità, alle volontà o anche solo ai desideri del singolo individuo e questo è tanto più fastidioso quanto più si pensa che nè voi n è io siamo davvero implicati in tutto questo, ma nonostante ciò non evitate (e sarebbe solo una questione di buongusto) ad esempio di cantare le lodi, chissà perchè, degli aspetti più odiosi del sistema cinese.

Luca Barzaghi
Vaprio d’Adda (MI)

La nostra risposta

"Oltre che comunista desidero fortemente considerarmi anche individualista convinto", scrive Luca Barzaghi, rimproverandoci "un assoluto passar sopra, da parte vostra, alle necessità, alle volontà, o anche solo ai desideri del singolo individuo", con riferimento alla nostra approvazione dell’operato del governo cinese nel Tibet e alla nostra osservazione che "anche in seno alle élites che allora (durante la sollevazione dell’89, n.d.r.), rimasero neutrali pur inclinando verso gli studenti", con il tempo è maturato un atteggiamento di condanna verso la "primavera di Pechino". Barzaghi ci accusa di essere indifferenti alla sofferenza sia degli studenti han che dei tibetani, ingiustamente perseguitati, a suo dire, dal governo cinese.

Al rimprovero rispondiamo innanzitutto che, nella nostra visione, comunismo e individualismo non sono affatto contrapposti: il comunismo, per noi, si fonda realmente sui principi "da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni" e "il libero sviluppo di ciascuno è la condizione (sottolineatura nostra, n.d.r.) del libero sviluppo di tutti"; si fonda cioè, sul riconoscimento dell’unicità di ogni essere umano e del bisogno di un diritto diseguale. Per questo condividiamo gran parte dell’attuale politica del governo cinese, che rende progressivamente più ampi gli spazi di libertà dei cittadini, avendo da tempo abbandonato l’assurdo principio del "combattere se stessi, combattere il revisionismo" in vigore durante la Rivoluzione Culturale.

In secondo luogo rispondiamo, però, che non c’è individuo che non sia socialmente determinato e che, pur desiderando tutto quello che vuole, possa fare tutto ci ò che vuole, anche in una sola "zona del vivere", come dice Barzaghi: altrimenti saremmo al "bellum omnium contra omnes" di hobbesiana memoria. Inoltre sembra contraddittorio che un individualista convinto possa davvero spogliarsi dei propri interessi e inclinazioni per solidarizzare con chi, anche soffrendo, vuole soddisfare inclinazioni e interessi antitetici ai suoi: se lo studente di Tienanmen esalta la libert à per introdurre in Cina lo sfruttamento capitalistico e il monaco si immola con il fuoco per reintrodurre in Tibet la teocrazia, il servaggio e il più abietto oscurantismo religioso, non posso certo solidarizzare con loro, anche se fossero miei fratelli (a meno che non sacrifichi i diritti dell’individuo sull’altare della solidariet à di clan).

Tanto meno sapendo che nel Tibet di oggi nessuno muore di fame, che gran parte dei ragazzi studiano, si diplomano e si laureano, che la lingua tibetana è valorizzata a tutti i livelli della vita civile e culturale, che la settimana lavorativa è di 35 ore, che lo spazio abitativo procapite è maggiore di quello degli han, che i tibetani possono avere più di un figlio e la popolazione in 45 anni è aumentata del 150% (altro che spazzata via!), che moltissimi tibetani, donne comprese, partecipano alla vita politica e amministrativa, che praticamente nella regione non esiste inquinamento, che tutti possono viaggiare liberamente.

Se per ipotesi il Tibet diventasse uno stato "indipendente" governato dal Dalai Lama, la politica, l’economia e la cultura farebbero un balzo all’indietro di secoli e il nuovo stato contenderebbe con successo all’Afganistan dei taliban il primato mondiale dell’arretratezza civile. Sarebbe peggio che a Kabul, dove, come è noto, la promozione dei diritti dell’individuo è un tantino carente. I diritti di 2 milioni di individui sarebbero annientati a profitto di una tirannica e corrotta élite di preti e militari mercenari tipo UCK al servizio dell’Occidente, di cui il Tibet diventerebbe la pattumiera fisica e spirituale.

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