Con l'Iraq

La guerra, soprattutto quando si manifesta sotto la forma di un micidiale tiro a bersaglio contro un popolo inerme, spazza via ogni possibile ambiguità, elimina i fronzoli e mette a nudo gli schieramenti. Quando una simile inaudita violenza occupa la scena, la macchina propagandistica che deve renderla plausibile esige delle "verità" elementari e a buon mercato. Non vi è più spazio per le chiacchiere, dunque, ma occorre schierarsi, e alla svelta, senza possibilità di equivoci. Questa criminale guerra amerikana, rimestando ben bene il calderone della cosiddetta società civile, ha riportato ancora una volta a galla lo sterco che in tempo di pace e di chiacchiere politicamente corrette giace sul fondo: l’ideologia della white supremacy, il pathos del primato dell’Occidente, la superiorità del Popolo dei Signori sul resto del mondo. Due guerre mondiali non sono bastate per estirpare questa maledetta ideologia che quelle guerre ha generato. Oggi essa si ripresenta nelle sue schifose vesti di sempre. Accade così che, per sviare l’orrore per i crimini contro l’umanità commessi dalla cricca sanguinaria Bush-Rumsfeld-Powell-Cheney, la Verità si rovesci nel suo opposto e l’Invasione diventa Liberazione.

La demonizzazione di Saddam Hussein il cui principale torto è di sedere sulle più cospicue riserve petrolifere del mondo, deve essere alimentata di giorno in giorno ed arricchita di nuovi elementi tali da colpire la fantasia dei cretini (che pure ne esistono, a centinaia di migliaia e a milioni, ed anche qualcuno si sinistra abbocca all’amo): egli diventa così "l’Hitler della Mesopotamia", il "Faraone post-moderno", colui che si comporta come uno "spietato sovrano dell’Antichità che trascina con sé nella rovina il suo popolo". Gli Iracheni che combattono eroicamente per difendere il loro Paese aggredito dallo straniero sono declassati a "sacche di resistenza degli irriducibili seguaci del Dittatore". Ma la cosa più stomachevole e rivelatrice dell’idea razzista di supremazia Bianca, è il totale silenzio e dunque la mancanza di pietà e considerazione umana per le stragi di civili che le migliaia di bombe e missili irraggiungibili scagliati di giorno e di notte nel cuore di Bagdad e di Bassora stanno provocando al popolo iracheno. Questa mancanza di pietà nei confronti di una strage di civili, considerati evidentemente alla stregua di sotto-uomini, è orrendamente messa in risalto dall’unanime cordoglio (ipocrita come tutti i cordogli per i militi ignoti delle guerre imperialiste) per i morti fra le truppe di aggressione anglo-americane.

Se il petroliere texano annuncia che la guerra sarà lunga, questo può voler dire, forse, che se alla fine l’esercito iracheno si rileverà insensibile allo Shock and Awe ("colpisci e terrorizza") e quindi non s’arrenderà e non accoglierà festoso i "liberatori" yankee, egli darà l’ordine di radere al suolo l’intero Iraq. Del resto soltanto gli stupidi apologeti della democrazia americana fingono di dimenticare che gli Usa si sono macchiati dei più orrendi crimini terroristici contro l’umanità, a partire dal bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki su cui non hanno mai fatto autocritica e che, secondo alcuni storici statunitensi, lungi dal piegare un Giappone già prossimo alla resa, significarono un avvertimento all’Unione Sovietica. Fu quello l’inizio della Guerra fredda.

L’aggressione all’Iraq sta dimostrando che fin quando esisterà un’arrogante iperpotenza imperialista che sopravanza in armamenti di distruzione di massa tutti gli altri paesi, non potrà mai effettivamente funzionare un’istituzione mondiale sopranazionale in grado di regolare con forza ed autorevolezza, secondo le norme del diritto internazionale, le controversie che nascono fra Stati.

Questa guerra sta svelando, inoltre, il fallimento della teoria populista che individua nel solo movimento dal basso la possibilità di contrastare la reazione mondiale (benevolmente definita "globalizzazione neoliberista"). Le forti contraddizioni fra imperialismo Usa da una parte e Francia, Germania, Russia e Cina dall’altra, dimostrano l’infondatezza di un’altra teoria, quella sulla progressiva perdita di importanza degli Stati nazionali a vantaggio di istituzioni globalizzate come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). In sostanza, il vecchio economicismo criticato da Lenin si manifesta oggi in dimensioni dilatate a scala planetaria. Per un altro verso, questi contrasti stanno rendendo concreto, chiaro ed attuale il principio leninista che nega la possibilità storica e politica che si possa manifestare un "superimperialismo" (che nella versione negriana sarebbe l’Impero) capace di imbrigliare il mondo intero e giungere così al capolinea della Storia (ricordiamoci la tesi dell’ultimo congresso di Rifondazione che poneva, fra i paesi -praticamente tutti - non più recuperabili all’antagonismo, anche la Cina, accanto ai "paesi arabi moderati"). Anzi, se vi è un elemento di novità rispetto all’analisi di Lenin, esso consiste nel fatto che, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, si è manifestata una tendenza che va in senso opposto al superimperialismo: il tratto distintivo dell’imperialismo odierno, è la polarizzazione del comando economico, politico e militare verso la superpotenza uscita vittoriosa dalla Guerra fredda ciò che, lungi dal rendere solidali tutti gli stati a regime capitalistico in un’unica catena mondiale (che è la quintessenza dell’idea di superimperialismo) approfondirà sempre più i conflitti fra l’imperialismo americano e il resto del mondo.

Gli scontri in seno all’Onu devono aver lasciato a bocca aperta quanti, fino al giorno prima, negavano o comunque relegavano al rango di improbabili ipotesi simili contraddizioni fra Stati. Se i teorici del superimperialismo non sono affetti da testardaggine senile è probabile che rivedano le loro idee. Ma sarà difficile.

Il movimento pacifista mondiale è "l’altra superpotenza"? Questa è una favola populista, un modo per ingannare se stessi e gli altri. Il movimento per la pace è certamente qualcosa di formidabile per estensione, profondità e tempestività di risposta alla guerra. Ma da solo non basta a fermare la follia di dominio mondiale dell’imperialismo Usa. Quest’ultimo capisce un solo linguaggio, quello della violenza, il linguaggio dei missili balistici a testata termonucleare. Prendete la Corea del Nord: quando Rumsfeld ha proclamato incautamente che gli Usa erano in grado di fare due guerre simultaneamente, un generale (americano, non coreano) che di guerre se ne intende, gli ha consigliato di cambiare il suo fornitore di "fumo" (proprio così!), intendendo dire: la marijuana che stai fumando adesso è di pessima qualità, ti sta dando al cervello.

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