Riflessione sulla lotta dei comunisti

Discutere è prassi politica

Esiste tra i comunisti un’esigenza diffusa e non procrastinabile, che è quella di un ripensamento e di una analisi critica del nostro essere comunisti oggi. Le esperienze che ciascuno, individualmente o collettivamente, ha collezionato nell’ultimo decennio sono la rappresentazione del processo di decomposizione a cui sono stati esposti i soggetti politici organizzati della sinistra di classe nel nostro paese.

Ciò che occorre è un confronto praticato senza pregiudizi, cioè su presupposti di analisi scientifica della realtà. Non debbono essere abbandonati i presupposti teorici, politici, storici ed ideologici del patrimonio del movimento comunista del 1800 e del 1900, ma certamente vanno rimossi dal campo i pregiudizi della sloganistica, quelli che formano cioè la falsa coscienza di ciascuna classe.

A mio giudizio la difesa e l’elaborazione di una ideologia del proletariato è invece oggi tanto più urgente e necessaria quanto devastante è l’aggressione dell’avversario di classe dal punto di vista materiale e culturale, ma deve fondarsi su presupposti storico-politici e teorico-scientifici, non rappresentare la falsa coscienza consolatoria di una classe o, peggio ancora, di una organizzazione politica più o meno consistente dal punto di vista numerico.

Dobbiamo dunque guardare intanto in faccia la realtà storico-politica e iniziare a porre qualche domanda, prima di dare risposte sterili, impraticabili, consolatorie.

I comunisti in Italia

Occorre riconoscere che questo decennio, contrassegnato dalla fine del PCI (e dell’estrema propaggine della nuova sinistra, DP) e dalla nascita del PRC, è stato caratterizzato dal tentativo di mantenere un’identità comunista visibile nelle istituzioni del nostro paese basandosi su un’iconografia, concetti, prassi e riferimenti politici assunti spesso in modo acritico (come nel caso della figura di Berlinguer); questo processo caotico e contraddittorio, che ha inglobato al suo interno i soggetti più disparati, si è però andato definendo negli anni configurando due anime egemoni in Rifondazione, che si sono poi scontrate sulla questione della fiducia al Governo Prodi nel 1997: da una parte la scissione del PdCI di Cossutta e Diliberto ha espresso la posizione di chi non ritiene possibile nell’attuale fase storica alcun processo di trasformazione radicale, ma solo qualche correzione di sistema e mantiene perciò opportunisticamente l’alleanza con il campo della borghesia democratico-liberale, responsabile di una politica di restaurazione neocapitalistica, agitando lo spauracchio delle destre autoritarie (che non si combattono certo efficacemente con questa tattica, ma ricostruendo una genuina politica di classe nel nostro Paese); dall’altra il tentativo di Rifondazione di costruire una forza che gioca sulla tensione tra antagonismo sociale e rappresentanza istituzionale e la cui prassi consiste nella contrattazione di spazi politici, sociali e di visibilità, ma che non pone come obiettivo strategico la questione del potere, dello Stato, infine della trasformazione rivoluzionaria della realtà (se non in tempi geologici, quando non solo il capitalismo sarà capitolato, ma anche qualsiasi specie animale come noi la conosciamo!).

Quale strategia per i comunisti del nuovo secolo

Non intendo dilungarmi sul tentativo fallimentare di riaggregazione dei comunisti rivoluzionari della Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati (CCA); non si può però neppure disconoscere che la CCA è stato l’unico tentativo, dopo l’involuzione riformista del PRC, di rilanciare un progetto comunista nuovo, con lo sguardo rivolto al futuro. Il fallimento della CCA, scaturito da contraddizioni interne oltre che dalla mancanza di spazi politici per la ricollocazione del PRC all’opposizione nell’autunno del 1998, testimonia delle difficoltà dei comunisti in questa fase.

A parte i molti limiti e le contraddizioni interne al processo confederativo, la questione organizzativa è risultata centrale ed esplosiva nel dibattito della CCA, poiché intorno a tale questione si sono definite due tendenze allora irriducibili rispetto all’analisi storica del ‘900 e ai modelli politico-organizzativi di riferimento per avviare credibili processi rivoluzionari.

Le due "frazioni" hanno sostenuto le proprie posizioni con argomenti che hanno definitivamente messo a nudo il nodo teorico di fondo, radicato in valutazioni storiche divergenti sul ruolo del partito, che forniva diverse interpretazioni sulla storia dei comunisti e sulle vicende del ‘900.

Ciò che mi sembra si dovesse e si debba tuttora evitare sono la sloganistica ed i proclami, tantopiù quelli di autoproclamazione referenziale di costituzione del partito comunista, poiché le parole che spesso dovrebbero chiarire e determinare concetti possono in tanti casi diventare il paravento formale dietro cui si cela la difficoltà di analizzare la realtà con le sue trasformazioni e di sperimentare ed affinare nuove forme di organizzazione e di costruzione della decisione politica. Lo sforzo invece va fatto, ma va fatto nella direzione che ci eviti di cadere nelle trappole tese dalla ideologia dominante, chiamata oggi eufemisticamente pensiero unico.

L’analisi della fase

Innanzitutto occorre affrontare una approfondita analisi della fase storica assieme ad una analisi del nuovo proletariato. Senza questa conoscenza è impossibile qualsiasi organizzazione del proletariato stesso.

Ma già qui si annida una trappola: infatti le analisi sociologiche e di classe, affiancate dalle analisi delle trasformazioni del mondo del lavoro flessibilizzato e precarizzato, ci parlano di una classe dispersa e frammentata, che ha perduto coscienza e consapevolezza politica; ciò porta a due tipi di considerazioni: quelle degli ideologi del capitalismo, che affermano la fine della storia e l’estinzione delle classi stesse in un magma sociale flessibile e mobile; quelle degli antagonisti neoriformisti, ma anche di molti comunisti, che propongono analisi in cui non si considera più la classe operaia produttrice (di fabbrica) come centrale nella contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro, ma si pone l’accento su soggetti antagonisti come disoccupati, giovani, stranieri per la ricostruzione di un blocco sociale antagonista.

Ritengo questo tipo di ragionamento piuttosto debole, e non mi sembra di potervi rintracciare un asse politico e culturale che permetta di determinare la riaggregazione sociale, sindacale e politica del proletariato antagonista. Nel mondo dell’antagonismo che ha dato vita all’interessante fenomeno del cosiddetto popolo di Seattle si ritiene spesso che questi processi, se governati attraverso reti sociali, possano mutare segno e trasformarsi da feroce fenomeno di modernizzazione dello sfruttamento in un’alternativa sociale democratica. In questo anche il PRC riconferma di essere un soggetto neoriformista, la cui matrice comunista si presta ad una trasformazione sostanziale più che formale con l’esaltazione di sperimentazioni di socialismo utopistico alla Porto Alegre.

Da queste premesse, le conclusioni che traggono i neoriformisti antagonisti sono quelle che occorre crearsi spazi di visibilità sociale e di tribuna nelle istituzioni, per strappare qualche concessione più o meno significativa, senza porre neppure in discussione o in una prospettiva futuribile la questione dello Stato e del rovesciamento del dominio della classe capitalistica per affermare il dominio del proletariato in una nuova società.

A mio avviso il cardine della questione non è il tentare di intervenire sugli effetti della ristrutturazione capitalistica, cioè sulla disgregazione in atto accettandola ed assumendola come dato a tal punto da costruirvi addirittura sopra l’organizzazione; piuttosto vanno aggredite le cause, e l’organizzazione dei comunisti che si propongono l’obiettivo della trasformazione rivoluzionaria della società deve essere adeguata alla struttura del nemico di classe.

La concentrazione avvenuta in questi anni di ristrutturazione mondiale ha prodotto una centralizzazione i cui effetti sono proprio quelli della decentralizzazione e della dislocazione territoriale dei poteri, a vantaggio della cosiddetta società civile, cioè dell’insieme degli interessi dominanti sui settori popolari, ridotti a subire le briciole assistenzialistiche fornite dal volontariato e dal no profit.

La prassi dei comunisti

I comunisti dunque devono sapersi dotare di strumenti che abbiano un’incidenza reale, devono porsi il problema di come intervenire su questi meccanismi, attraverso un’organizzazione che non presti il fianco ad ulteriori disgregazioni.

A tale proposito, non mi convincono le reti o i coordinamenti come strumenti di riaggregazione: non credo che siano produttive per la riaggregazione e per la ricostruzione di percorsi rivoluzionari versioni rosse della strategia lillipuziana contro la globalizzazione.

Allo stesso modo, non credo convincente per nessuno rilanciare la parola d’ordine del partito comunista, come questione formale e sloganistica, consolatoria e vuota dal punto di vista progettuale. Senza un progetto, senza la preliminare discussione politica e strategica su cosa debbano fare oggi i comunisti non si dà né organizzazione né prassi, ma solo formule magiche che non determinano alcun effetto sulla realtà prosaica del capitalismo.

I problemi che ci troviamo ad affrontare sono di natura oggettiva (l’evidente preponderanza materiale e ideologica della borghesia globalizzata, in tutte le sue articolazioni e contraddizioni) e di natura soggettiva (la rotta che il movimento comunista internazionale, soprattutto in Occidente, ha subito negli ultimi 10/20 anni).

Dunque, si tratta di ripartire: di sviluppare un dibattito di carattere ideologico-culturale; di confrontare e discutere gli aspetti teorici dell’attuale fase del capitalismo; individuare le battaglie comuni contro gli imperialismi che si scontrano sul terreno della globalizzazione; sviluppare campagne sindacali e sociali per ricostruire l’unità degli interessi dei lavoratori contro i processi distruttivi del capitale nazionale e sovranazionale; ridefinire una strategia del movimento comunista. Questioni di non poco conto, come si può capire: le difficoltà non debbono però impedire il tentativo, ed è un compito che impegnerà i comunisti nei prossimi anni (se non decenni).

Credo che sarebbe utile individuare uno strumento comune, un luogo che possa essere il terreno di incontro e di apertura del dibattito, un giornale che abbia una storia e che sia riconoscibile per il suo impegno in tal senso, senza ingessature ideologiche. Un giornale come Nuova Unità che si assumesse questo compito avrebbe l’indubbio merito di aprire nuove prospettive per i comunisti nel nostro paese.

Senza cadere a mia volta nella sloganistica, ritengo che sarebbe un contributo notevole per avviare una strategia di carattere neoleninista, in cui l’organizzazione dei comunisti sia l’approdo storico a partire dalla battaglia ideologica contro l’ideologia dominante.

È una necessità da cui non si può prescindere per orientare i processi storici verso una trasformazione in senso socialista e comunista della società.

Giovanni Bruno

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