A proposito di Cina e di democrazia

Il metodo degli attacchi personali va rigettato - dice il compagno Bernardini nell’articolo a me dedicato nel numero scorso di Aginform. Francamente, si tratta di un’affermazione ipocrita perché tutto l’articolo, più che una polemica nei riguardi delle posizioni che io esprimo (in particolare le critiche al compagno Andrea Catone), si configura come un vero e proprio attacco personale, attacco di una violenza che non ammette repliche. Questo compagno mi ha accusato di fraintendimenti, letture a ritaglio e affermazioni gravi, dice che sono vittima di fissazioni, che esprimo aeree fantasticherie, che cado nel ridicolo, faccio sciocca ironia, dice che sono furibondo e irriflessivo e così via.

Ma se avessi prodotto tante ridicolaggini, sarebbe valsa la pena dedicarmi tanto spazio? Di primo acchito non si riesce a capire perché mai Bernardini corra in soccorso di A. Catone, perché si sia fatto suo avvocato difensore. Si potrebbero immaginare i retroscena che hanno portato alla decisione di impegnare Bernardini come testa d’ariete, ma sarebbe una storia poco interessante. Conta invece il fatto (ed è l’unica spiegazione plausibile) che i compagni Catone e Bernardini sono, da un punto di vista ideologico, molto più vicini di quanto non sembri.

Su due grandi questioni vi è una divergenza, e su queste due questioni la critica mossami è particolarmente aspra: la democrazia politica in regime socialista e il giudizio sulla Cina dopo la scomparsa di Mao Zedong. Su questi due argomenti cercherò di spiegare perché non ho detto (in particolare quando parlo di democrazia politica in regime socialista) “quella colossale ed universale banalità” che il compagno Bernardini gentilmente mi attribuisce. Innanzitutto non è vero che la rivendicazione di una piena democrazia politica è borghese o revisionista. Certo, se siamo ancora dogmaticamente legati, dopo tutto ciò che è accaduto in Urss, all’idea chimerica (perché tale si è storicamente rivelata) dell’estinzione dello Stato, allora veramente ogni richiesta di libertà politica sembrerà un’aspirazione borghese. Quando parlo di democrazia politica non ho in mente specifiche forme istituzionali in cui quella democrazia si deve realizzare: pensare alla democrazia politica avendo il mente il parlamentarismo borghese sarebbe sì, revisionismo socialdemocratico. Essendo noi ancorati a un marxismo rivoluzionario e non accademico, siamo consapevoli che soltanto da un rivolgimento dell’attuale società capitalistica occidentale nasceranno le forme concrete, ora inimmaginabili, che potranno assumere i futuri assetti istituzionali della nuova società una volta chiusi i conti, definitivamente, con il regime borghese-capitalistico. Ma nel nostro scrutare il futuro, nel nostro immaginare i possibili scenari di edificazione di una società socialista nell’Occidente avanzato (avanzato economicamente, culturalmente, politicamente) non partiamo da zero, nel senso che abbiamo pur sempre la possibilità di osservare, studiare, riflettere sui concreti riferimenti che ci offrono i paesi che non hanno abbandonato la via socialista (parlo di concreti riferimenti non di “modelli” da seguire, ciò che sarebbe dogmatico e antistorico).

Dunque non partiamo da zero. Il socialismo è crollato solo in Urss e in Europa orientale, e tra i paesi che non hanno abbandonato la via socialista io annovero la Cina. Lì, dopo la catastrofe della rivoluzione culturale, vi è stata una svolta profonda che non solo ha salvato il grande paese asiatico dal crollo (come avvenuto in Urss), ma lo ha incamminato lungo la strada di un prodigioso sviluppo economico. Il compagno Bernardini non capisce ciò che sta accadendo in Cina. Non nego e non affermo - egli scrive - che in Cina non possa che farsi quello che si sta facendo, però…non dobbiamo dimenticare che a Mao è succeduto Deng Xiaoping, il “Krusciov cinese”. Sembrerebbe dunque che la svolta operata dopo la scomparsa di Mao si configuri nei termini in cui avvenne in Urss con Krusciov, dopo la morte di Stalin. Il compagno Bernardini non nega e non afferma, non sa se in Cina c’è il pericolo di una controrivoluzione capitalistica o se questa è già avvenuta, non sa se il Partito comunista cinese si sta trasformando in un partito controrivoluzionario o se la trasformazione è già avvenuta. Questa posizione oscillante, dubbiosa (ammesso che sia davvero tale) è già un passo avanti rispetto a quella di certi comunisti occidentali con la puzza al naso i quali danno per definitivamente persa la causa del socialismo nel grande paese asiatico. E i dubbi, specie quando non mettono radici in pregiudizi e in “verità” dogmatiche, vanno rispettati: i processi di apprendimento consistono appunto nel superare progressivamente i dubbi di cui è disseminata la via della conoscenza. A tal proposito, però, la conoscenza della rivoluzione cinese da parte del compagno Bernardini mostra delle lacune, perché non fu Deng Xiaoping ad avere il titolo infamante di “Krusciov cinese” ma Liu Zaoqui (all’epoca presidente della Repubblica popolare cinese) il quale fu vittima della “democrazia diretta” esercitata dalle guardie rosse, che lo oltraggiarono e dileggiarono fino alla morte.

La grande svolta dopo la scomparsa di Mao è consistita nel porre fortemente l’accento sul governo delle leggi, sulla norma scritta, su un sistema giuridico che ponesse finalmente termine agli arbitri e ai poteri personali. I comunisti cinesi sostengono che il loro paese si ispirerà alle conquiste positive della civiltà politica e giuridica dell’umanità, senza che questo, beninteso, significhi che la Cina copierà i modelli politici occidentali. Essi pongono l’accento sul fatto che non bisogna più consentire a nessuna organizzazione né ad alcun individuo di porsi al di sopra delle leggi. Nell’ultimo congresso del Pcc Yang Zemin ha affermato che “la democrazia socialista deve essere istituzionalizzata” e quindi “sottoposta a precise norme e procedure”, che “uno de grandi temi in discussione in Cina è la democrazia” (senza altri aggettivi). Insomma, i comunisti cinesi si muovono con grande consapevolezza nella prospettiva dell’edificazione di un forte Stato socialista fondato sul diritto.

Quando io affermo che in epoca staliniana lo Stato sovietico si andava sempre più caratterizzando come apparato repressivo che non lasciava spazio ad alcun tipo di dissenso, non mi converto alla linea di Fassino e di tutti i rinnegati del comunismo, e men che mai intendo ingrossare il coro delle “valutazioni criminalizzatrici” dell’era staliniana. Ritengo invece che proprio l’attesa messianica (e mai realizzata) dell’estinzione dello Stato aveva come risvolto la messa al bando dell’idea stessa di democrazia cui si è sempre attribuito l’aggettivo “borghese” (Bernardini non rinnova forse questa tradizione?). E in ciò penso che vadano individuati quei limiti storici e teorici dell’esperienza staliniana che hanno generato errori difficilmente superabili proprio perché affondavano le loro radici non in una qualche teoria staliniana ma nella dottrina marxista medesima, errori che la storia (vedi il crollo dell’Urss) ha rivelato essere tali. Il fatto che Bernardini si sbellichi dalle risate quando sente parlare di democrazia politica in regime socialista e accompagni i suoi insulti con dei gridolini e riduca l’argomento a “bazzecole” e “pinzellacchere”, tutto ciò mette in luce che egli ha delle incrollabili certezze che lo legano dogmaticamente al passato e lo rendono incapace di valutare gli eventi che si sono svolti sotto i nostri occhi. Per un marxista di orientamento rivoluzionario è davvero imperdonabile non riuscire a cogliere gli elementi di novità che differenziano le diverse epoche della nostra storia, non riuscire a leggerli come progressive tappe di apprendimento e quindi di rettifica (conseguenti agli errori che hanno portato alla tragedia del crollo dell’Urss) e continuare a mettere sullo stesso piano il dopo-Stalin e il dopo-Mao, continuare ad assimilare Deng Xiaoping a Krusciov, o avere ancora in orrore il termine “democrazia politica” e cavarsela a buon mercato con un non proprio brillante “non nego e non affermo”.

Le iniziative del tipo “centro studi per la transizione al socialismo in Urss” sono estremamente utili, e magari si moltiplicassero studi e dibattiti di tal genere! Ma quando ci si esprime sulla valutazione storica dell’esperienza sovietica, è troppo poco accontentarsi del fatto che di quella storia non se ne fa una sequela di crimini. E’ davvero troppo poco. Tutto il problema sta nel dare una risposta precisa a questi interrogativi: in Urss c’è stato o non c’è stato socialismo? C’è una linea di continuità Lenin-Stalin, oppure il secondo è stato l’artefice della degenerazione del leninismo? La svolta kruscioviana del 20° Congresso del Pcus è stato un punto di rottura di valenza controrivoluzionaria oppure ha rappresentato l’inevitabile approdo di una cosiddetta transizione mancata? A tal proposito il compagno Bernardini si fa delle illusioni, egli dice: “tutto l’equivoco nasce dall’espressione ‘transizione al socialismo’, su cui certo non vi è stata sufficiente riflessione e io stesso ho delle forti riserve. Ma se si leggesse ‘transizione al comunismo’ come è certamente il senso del passo, tutto lo scandalo verrebbe meno”. Bene, allora se è tutto un equivoco, provi Bernardini a proporre questa modifica e vedrà come lo accontenteranno! Quanto a me, ribadisco tutte le critiche (non ‘fuochi di sbarramento’ o ‘attacchi forsennati’, ma critiche) mosse al compagno Catone.

Voglio solo aggiungere che nel gennaio del 1994 si tenne un convegno internazionale ad Urbino i cui atti furono pubblicati in un volume dal titolo: “Lenin e il Novecento”, edito dalla stessa casa editrice (“La città del Sole”) che ha pubblicato il più recente “Problemi della transizione al socialismo in Urss”. Io sostengo che i quattro quinti di quegli interventi, nel riportare in auge note tesi trotskiste, erano volti in primo luogo a dimostrare una marcata discontinuità Lenin-Stalin (se lo vada a rivedere, quel libro, il compagno Bernardini). Quel volume conteneva anche due falsi storici di Luciano Canfora e di Valentino Gerratana a proposito del cosiddetto testamento di Lenin, nell’intento di criminalizzare Stalin. Vi era anche uno scritto del compagno Catone il quale affermava che se non dobbiamo dar credito alla vulgata trotskista di C. Bettelheim (per cui l’Ottobre non è stato altro che una “rivoluzione capitalistica”), dobbiamo respingere anche la “teoria maoista” del “revisionismo” del 20° Congresso del Pcus del 1956. Ed è proprio strano che Bernardini si faccia difensore di Catone su un problema così importante e centrale mentre riserva i suoi strali per chi ha condiviso tutte le ragioni della polemica antikrusciov del partito comunista cinese.

Amedeo Curatoli

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