Il "socialismo democratico" del compagno Curatoli

Il compagno Curatoli persevera, ciò che, come noto, è diabolico. E con lui altri (“Aginform”, n. 42, luglio 2004; in precedenza, “Aginform”, n. 39, febbraio 2004 e la mia risposta, n. 40, marzo 2004). Ora, siccome ho partecipato e intendo continuare a partecipare all’iniziativa del Centro Studi di Napoli, devo replicare. Ma anche per segnalare e respingere posizioni che reputo gravemente erronee.

1. Deploro che tempo, energie e spazio di “Aginform” vengano dissipati per una campagna contro un’iniziativa, neppure compiutamente partita, nella quale certo sono presenti - per un inevitabile accumulo storico dopo il 1956 e il 1989-91: non potrebbe essere altrimenti, salvo che per compagni isolati dalle granitiche certezze, che se le coltivano da soli - incertezze, ambiguità, contraddizioni, ma nel quadro di un minimo comune denominatore che ritengo essenziale: il rispetto per l’esperienza del “socialismo reale” (uso per comodità l’espressione), che è la base per la dichiarata intenzione di studiare quell’esperienza seriamente, come elemento imprescindibile per chi “si ponga oggi nella prospettiva di trasformare radicalmente i rapporti sociali nel mondo”

Se teniamo presente il vero stato delle cose e non viviamo di illusioni, di soggettivismo, di solipsismo, la posizione minima, pur se poi quella di Napoli fosse solo tale, quanto meno in una fase iniziale andrebbe salutata come una ventata di aria fresca. Oltretutto, un’iniziativa del genere mira a parlare anche ai compagni onesti, ma completamente frastornati dall’ideologia anticomunista di massa, e deve quindi suonare credibile: non può presentarsi come l’ufficio di rappresentanza dei paesi del socialismo reale. Che possa volersi di più e meglio da chi ha maturato da tempo più decise posizioni (e io mi metto nel novero), può essere naturale: ma o si ha la capacità di impiantare ora qualcosa su siffatta base “più avanzata”, disponendo di una adeguata “massa critica” (mezzi ma soprattutto persone), o altrimenti si opera - il meglio può essere nemico del bene - nel quadro dell’iniziativa disponibile, apportandovi i contributi possibili. Certo non sparando a zero, in funzione, va detto, obiettivamente sabotatrice e paralizzatrice.

2. Il metodo degli attacchi personali va rigettato (anche se io sono costretto a rispondere a Curatoli). Sembrano piuttosto rese di conti con compagni che non fanno quello che si vorrebbe e come lo si vorrebbe (e qui mi fermo sul punto). Questo metodo porta all’isolamento, divide forze fra loro vicine, in una fase che dovrebbe essere di ricomposizione di una da tutti lamentata frammentazione, che però - se continua a seguirsi un tal metodo - mi appare voluta e quindi colpevole. Il dato impietoso è quello del numero di coloro che si riconoscono (e continueranno a riconoscersi, qualora si prosegua per questa via sbagliata) in un’impresa comune. Non si vuol certo far dipendere da un dato numerico la verità o meno di una posizione politica o ideologica: ma bisognerà pur tenerne conto prima di sparare a pallettoni contro chiunque si sforza di far qualcosa in controtendenza (oggi, tale è - ripeto - persino il solo parlare con rispetto dell’Unione Sovietica di Stalin: del che certo non mi contenterei, e cercherei di far di più, per conto mio, con chi ci stesse ma anche nel quadro dell’iniziativa “minima”, ma per questa dovrei pur tenere i piedi per terra). Giusti stimoli e critiche sono benvenuti, non però preventivi sbarramenti di fuoco, che fra l’altro dividono pure il pugno di compagni che partecipano ad “Aginform”: come sempre, poi, con decisioni di stampa non discusse insieme.

3. Tanto più che - accanto a qualche giusta preoccupazione o riserva (da farsi valere però in modo diverso) - le critiche di Curatoli si basano, ritengo fermamente, su fraintendimenti, letture “a ritaglio” (di comodo), vere e proprie contraddizioni e anche affermazioni gravi, queste sì da respingersi.

Anzitutto, è ben singolare che, rispetto ad un volume certo caratterizzato da qualche eclettismo, come detto inevitabile all’inizio di un’impresa come quella tentata con il Convegno di Napoli, non si dia primo e fondamentale risalto a quei saggi (e cito solo Gossweiler, Holz - al quale qualche riga è per vero riservata -, Chiaia, ma ve ne sono altri) che, per la prima volta da molti anni in un’iniziativa e pubblicazione non di gruppo ristretto e chiuso, bensì di potenziale portata nazionale, rovesciano la vulgata strabordante a destra e forse ancor più “a sinistra” su Stalin e l’Unione Sovietica. Si lancia invece un’offensiva che, per il modo come è condotta, non mira, mi pare proprio, e comunque non raggiunge il fine di migliorare le cose per il futuro.

Cominciamo dall’ultima di copertina del volume. Invece di plaudire all’impianto generale (la storia del socialismo reale è “questione aperta, di immensa portata e complessità, decisiva per la storia dell’intera umanità. Una storia oggi rimossa o prevalentemente scritta da chi vede in essa una sequela imperdonabile di errori ed orrori. C’è invece bisogno di studi scientifici e critici per liberare la storia dell’URSS e delle rivoluzioni socialiste dalla gabbia di menzogne, denigrazioni, demonizzazioni, categorie interpretative parziali, riduttive, devianti [“burocrazia”, “statalismo”, “totalitarismo”] che è stata costruita nel corso del ‘900 e si è consolidata in questi ultimi anni di revisionismo storico e stravolgimento dei fatti… Nessuno che si ponga oggi nella prospettiva di trasformare radicalmente i rapporti sociali nel mondo, può ritenere di eluderla o aggirarla, ritenendola storia altra, o addirittura opposta rispetto al suo progetto. Senza teoria e conoscenza delle esperienze di transizione al socialismo, nessun altro mondo è possibile”): invece di plaudire, Curatoli si sofferma sulla “mancata o parziale soluzione” della “transizione al socialismo”, come espresso prima dei chiarissimi passi citati. Ma è del tutto evidente, per chi legga senza preconcetti, che l’equivoco nasce dall’espressione “transizione al socialismo”, su cui certo non vi è stata sufficiente riflessione e io stesso ho delle forti riserve. Ma se si leggesse “transizione al comunismo”, come è certamente il senso del passo, tutto lo scandalo verrebbe meno. Del resto, “mancata o parziale soluzione” non vuol dire senz’altro che socialismo non vi è stato: non può dimenticarsi che la fase del socialismo è di per sé “transitoria”, caratterizzata dalla lotta di classe e che, anche dicendosi che socialismo vi è stato, la sua regressione in se stessa costituirebbe “mancata o parziale soluzione”, perché così non potrebbe non caratterizzarsi una fase in cui è insita la possibilità di regressione, e questa vi è stata.

La fissazione di Curatoli che il Centro sarebbe destinato a dare i voti al “socialismo reale” e a decretare se socialismo vi sia stato o piuttosto no, mi pare, di fronte alla dialetticità e mobilità dei processi reali, francamente solo una aerea fantasticheria. Mi perdoni Curatoli, ma non si può far perder tempo su queste cose, quando il “mondo” ha sancito che socialismo non vi è stato, non vi sarebbe potuto essere, è stato solo “totalitarismo” e “assenza di democrazia” e peggio (ahi, ahi, Curatoli… il dolce alla fine). Un volume, che è complessivamente in controtendenza, può venir salutato come fa Curatoli, che poi – vedremo – tanto in controtendenza finisce per non apparire?

Certo, condivido alcune riserve sul saggio di Pala (che mi sembra “al di là” dell’ipotesi di ricerca del Centro, ma comunque è rispettoso e non scomunicante), ancor più su Sorini, ancorato alle fallimentari visioni dell’ultimo Pci (ma anche qui ahi, ahi Curatoli, che nel precedente articolo espressamente, e in quest’ultimo implicitamente, ti rifai alla concezione, presente nel volume ed essa sì molto problematica e dalle implicazioni di grave momento, la quale crede di individuare “limiti storici e teorici dell’epoca della direzione staliniana” in un modo tale da sfociare inevitabilmente, secondo me, nel revisionismo).

Frainteso, mi pare, quanto, forse non del tutto chiaramente è vero, ha espresso Mazzone sullo stachanovismo. Nella dialetticità reale della storia sovietica un dato fenomeno, che in un contesto caratterizzato da forti mobilitazioni soggettive e impegno ideale, è stato positivo, avrebbe potuto assumere contorni almeno dubbi se visto nell’ottica di contesti diversi, che purtroppo l’esperienza socialista poi ha conosciuto. Mazzone non ha voluto dire che gli stachanovisti a loro tempo fossero “crumiri”: gli si potrebbe però obiettare che in altri e successivi contesti non si sarebbe potuto parlare di stachanovismo.

4. Ma l’attacco più grave e sconsiderato (o, chissà, fin troppo mirato) è quello nei confronti di Andrea Catone: e lo mostra il titolo dell’articolo, che forse è “redazionale”, ben in colonna con un improvvido “Né con Stalin né con Bertinotti?”, sulla cui formula, ad effetto ma poco sensata, per ora non mi soffermo.

Premesso che, se si vuole accettare per un momento questo autentico nonsense, tutto il volume (o quasi), anche nei suoi saggi più “scettici”, sta con Stalin e non con Bertinotti (se non altro perché rovescia l’assunto base di quest’ultimo: trattare di Stalin non seriamente, se non sotto l’aspetto “criminologico”), devo scendere in campo per affermare che magari ne avessimo molti, di saggi come quello di Andrea Catone! Con la riserva su due o tre frasi, forse sfuggite di penna, e di qualche mancata sottolineatura (ma un saggio non può dire tutto!), Catone fornisce un quadro sintetico chiaro e positivo di quello che è stato l’avanzamento vero della società sovietica sotto il partito di Stalin.

Ma dove mai Catone fa del solo superamento dell’arretratezza, pur condizione ineliminabile, il successo bolscevico? Strano che questa obiezione provenga da chi sostiene, senza porsi problemi, l’attuale via cinese (e su ciò più avanti), ma Catone dice espressamente che i bolscevichi al potere “non si erano posti solo l’obiettivo di superare l’arretratezza economica, ma quello, ben più ambizioso e difficile, di costruire una società socialista, di organizzare un’economia pianificata sulla base della proprietà collettiva dei mezzi di produzione”; e ancora: “la scelta intrapresa per affrontare il duplice immane problema di superare l’arretratezza avanzando sulla strada del socialismo, risultò vincente”. Siamo veramente stanchi di letture che non leggono tutto, sia ciò per sventatezza o, peggio, per malvolere.

Si cade poi nel ridicolo quando sulle sintetiche, ma limpide descrizioni di un dibattito teorico che vi fu e delle relative applicazioni (piani teleologici o di scuola genetica; si vedano anche le notazioni su sprechi e squilibri nel complesso di dichiarati colossali risultati positivi) si fa della sciocca ironia: o quei dati storici e di fatto vengono scientificamente confutati o l’enunciazione della loro inconfutata presenza, con i dibattiti e le notazioni di dirigenti incluso Stalin, non significa per nulla adesione alle soluzioni più riformistiche (piani genetici) o desiderio di un socialismo senza problemi, sprechi… Ma che vuol dire? Astrattamente, tutti vorrebbero ciò (anche Stalin, che criticava gli sprechi…), ma la valutazione di Catone è nettissima, nel senso che la via di Stalin è stata necessaria e vincente (e non quella di Bucharin, che altri, fra i saggi presenti nel volume, forse contortamente prediligono, ma Curatoli non se ne accorge). Il titolo dato all’articolo di Curatoli, “Il socialismo imperfetto del compagno Andrea Catone”, è ben rappresentativo di questa assenza di pensiero: ogni socialismo, proprio perché – come notato – di transizione, è “imperfetto” (ma non esistono modelli ideali “di raffronto”, solo l’affermazione del potere proletario attraverso il Partito, il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato, il progrediente superamento storico delle classi, la spinta propulsiva per altre rivoluzioni e per la liberazione dei popoli oppressi, la vittoria sui nemici del socialismo sono fra i parametri). Certo, alcune considerazioni finali di Catone, pur basate su nuclei di verità, ma a mio parere espresse in modo inadeguato, lasciano perplessi. Così quella per cui la pianificazione staliniana non è modello assoluto: banalmente vero, perché modelli non si danno, ma dunque affermazione superflua e quindi dannosa, quasi una presa di distanza, una excusatio non petita, laddove si sarebbe dovuto sottolineare l’insegnamento permanente che se ne ricava, l’intransigenza e al tempo stesso l’adattabilità alle condizioni reali e alle prospettive nonché ai rischi incombenti, che la vincente linea staliniana comportò. Lo stesso vale per l’altra asserzione, quella sul revisionismo, mi pare pure non felicemente formulata: perché si comincia con le riforme economiche post-staliniane (delle quali si nega il carattere decisivo per il “crollo”), ma poi il discorso sfocia inavvertitamente sul revisionismo in generale: e qui, se è vero che non tutto fu “tradimento” (ma vi è anche il “tradimento oggettivo”, frutto di erronee posizioni e scelte nella perdurante lotta di classe e nell’abbandono dei canoni di fondo indicati da grandi dirigenti come Lenin – stravolto dai revisionisti – e Stalin – criminalmente negato), non vi è dubbio che il revisionismo fu fattore decisivo per la corrosione e la caduta e finì per tingere di sé anche i tentativi di riforma economica.

Tutto ciò non toglie che dal saggio di Catone risulti con assoluta nettezza la piena positività del periodo staliniano, pur con i relativi costi: anche qui è soltanto sciocco pensare che costi non vi fossero, li riconosce lo stesso Stalin, ad es., nell’intervista a Wells, da “Aginform” in parte pubblicata. Se ancora per un attimo ci fermiamo sul non proprio brillante “Né con Stalin né con Bertinotti?”, non ho dubbi che Catone stia con Stalin.

5. Chi invece scivola verso Bertinotti è proprio il furibondo e irriflessivo - mi perdoni ancora una volta - Curatoli. Che non si cura neppure della coerenza del proprio pensiero. Mentre si afferma solidamente ancorato alle posizioni di Stalin (e penso di Mao), o quanto meno si adonta se in proposito viene notato qualche “neo” o costo inevitabile, esprime una del tutto aproblematica esaltazione dell’attuale linea cinese, che lascia sconcertati. Si badi che non nego senz’altro (ma neppure affermo) che, nell’attuale congiuntura planetaria, in Cina non possa che farsi (più o meno…) quel che si sta facendo: lo sviluppo delle forze produttive senza limiti (ideologici, di classe…). Insomma, una gigantesca NEP. Già, ma bisogna ricordarsi che Lenin, lanciando la NEP, intensificò il lavoro ideologico; che parlò chiaramente di (provvisorio) ripristino di capitalismo o di suoi elementi; che si pose il quesito fondamentale: “Chi vincerà, noi (il proletariato) o loro (i capitalisti)?”. E Stalin (e Mao) avvertirono sulla possibilità concreta che a vincere fosse il capitalismo, ed ambedue combatterono le tendenze che implicavano tale pericolo: Bucharin, da cui derivò poi, dopo la morte di Stalin, e come questi aveva previsto, un buchariniano (ed ex trotzkista) quale Krusciov; dopo Mao, alla fine, Deng, il “Krusciov cinese”. Non ci si può dimenticare di tutto questo: l’attuale linea cinese (ripeto, forse, e solo forse, inevitabile) contiene in sé il rischio della controrivoluzione capitalistica (se già non avvenuta), della trasformazione definitiva (se anche già non avvenuta) del PCC. Non ci si può rifare a Stalin senza per lo meno coerentemente porsi questi problemi.

Ma la “perla” di Curatoli è in chiusura: “L’Unione Sovietica non è morta di “economia” - e qui non si accorge che è proprio questo quanto dice Catone - “ma di [mancata] democrazia”, per i “limiti storici e teorici che hanno reso impossibile il raggiungimento di una piena democrazia politica”. Beh, con questa colossale e universale (tra borghesi e revisionisti) banalità siamo proprio al Bertinotti o Fassino-pensiero. Che significa “democrazia politica”, categoria eminentemente borghese, in un sistema socialista avviato, almeno come obiettivo di principio, al comunismo? Nel quadro di un’asperrima lotta di classe interna e internazionale, che non finisce “a comando” o per decreto? Che ha a che fare la “democrazia politica” con la dittatura del proletariato in tutti i suoi possibili sviluppi e con le trasformazioni rivoluzionarie sino al comunismo? Applichiamo a Curatoli il “metodo Curatoli”: dunque, egli vorrebbe un socialismo “democratico” (incidentalmente: esiste qualcosa del genere nell’attuale Cina, così ardentemente e, in quanto in modo aproblematico, incoerentemente caldeggiata da Curatoli? In cui certe “acquisizioni” proclamate in direzione “democratica” o “garantista” sono proporzionali al diminuire del tasso di socialismo?). Per Curatoli lo sbocco, in definitiva, è il “socialismo democratico”: credevamo di sapere ciò che questo significasse, Gorbaciov docet, il trionfo del revisionismo e quindi la sua sconfitta totale e la restaurazione del capitalismo; e non ci pare proprio che ciò abbia molto a spartire con Lenin, Stalin, Mao… Curatoli se ne è uscito con questo mirabile “pensiero” bertinottian-fassiniano (nel precedente articolo): “Lo Stato socialista… andava sempre più caratterizzandosi come soffocante apparato repressivo che non lasciava scampo a nessun tipo di dissenso, ma che, anzi, lo criminalizzava”. Bazzecole! Pinzillacchere! Ci si straccia le vesti per certe blande notazioni di Catone (neppur bene intese) e si trincia una rotonda valutazione criminalizzatrice, sul “socialismo reale”, di portata devastante. Ma che si fosse trattato di lotta di classe, con i suoi pesi ineludibili, non salta in mente a Curatoli, che la avrebbe voluta veder sostituita dalla “democrazia politica”?

Medico, cura te stesso. Non Catone, ma Curatoli e chi lo ispira o sostiene, si rendono responsabili di un polverone che accresce l’esistente confusione e del tentativo di paralizzare, invece che migliorare, iniziative che sono comunque da salutarsi con un “buon lavoro, lavoriamo insieme, anche per chiarire talune cose” (ma non alla Curatoli-maniera). Si riservino i fuochi di sbarramento ad altri fronti e, per favore, risparmiamo tempo, spazio ed energie.

Aldo Bernardini

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